Angela Andaloro è poetessa e narratrice della pittura. Della narrazione ha la solida struttura data dal disegno, della poesia gli accenti musicali, l’aria liquida e spaziale del concetto razionale che si mette a danzare col sogno. La sua figurazione ha un carattere doppio: insieme intima e pubblica, sciolta e legata, personale e universale. Se fosse un momento della giornata sarebbe certamente il pomeriggio, un tipico pomeriggio mediterraneo, quando l’energia solare degrada lentissimamente sull’orizzonte dell’acque. A quell’ora tutte le cose sono perfettamente illuminate, pienamente centrate dai raggi della nostra stella mentre, impercettibilmente, qualcosa muta. Il pomeriggio contiene la potenza del sole mattutino e il lento rinfrescare della sera: è il tempo perfetto per le idee, per le poesie d’amore, per le ispirazioni creative. Il pomeriggio è il tempo del sogno ad occhi aperti, il tempo in cui le divinità si manifestano nel frusciare delle foglie, tra le ombre dei bagnanti che raggiungono la spiaggia. Nel pomeriggio le immagini sono perfettamente nitide ma non sono più schiacciate dal fuoco totale del sole allo zenith. In quest’ora del giorno la realtà stessa diventa pensosa, si allunga, si ingrossa, assume una profondità, un corpo suo. La pittura di Angela Andaloro è fatta di presenze, di persone, che sono anche corpi, ma che l’artista sceglie accuratamente per metafore, per simboli di un dialogo altro. Il pomeriggio è un momento in cui gli uomini parlano piano, e anche Angela Andaloro non urla, tutta la sua immaginazione è organizzata in un testo ben ponderato, con un tono dinamico mai dissonante, sempre armonico, melodioso. Le pose dei suoi personaggi racchiudono emozioni ed idee che lo spettatore deve cogliere con un lieve sforzo dell’attenzione, come se stesse ascoltando il sussurro di qualcuno, come se si disponesse ad ascoltare il canto segreto della realtà. L’ultimo ciclo della sua produzione vede la figura femminile come protagonista. Nell’opera (xxx opera copertina) una donna seduta per terra volge lo sguardo altrove, serrando le labbra. È vestita di rosso e indossa una sorta di cerchietto che sembra quasi una corona di piccole perle. Se fosse la carta di un mazzo da gioco sarebbe la regina di coppe. Le coppe sono il simbolo delle emozioni, dell’amore. Di fatto, questa donna è vestita di rosso, ha lo smalto rosso sulle unghie e le labbra rosse. Ha i piedi nudi, e propri i piedi nudi sono la prima cosa che vediamo della sua regale presenza. Ci porge i piedi scalzi ma il suo sguardo non è per noi. Dietro di lei, l’angolo di un muro chiude vista. La regina qui è diventata una bambola da osservare ma il suo corpo ci sta dicendo che essa rifiuta questa condizione, forse da un momento all’altro potrebbe alzarsi, potrebbe nuovamente sedersi sul suo trono per innalzare la sua coppa traboccante d’amore. L’interpretazione iconografica pare confermata in “Aspirazione all’eternità” (2018), qui ci sono due donne, in piedi, che, insieme sollevano una coppa. Entrambe hanno una fisicità scultorea, dalla spalle potenti e le carni piene, sono vestite all’antica, un po’ barbariche un po’ greche. Alzare i calici è un gesto di augurio, ma anche un gesto di trionfo quando la coppa piuttosto che un bicchiere è un trofeo. Non c’è lotta, non c’è dissidio, la loro è un unione armonica. Forse l’una è la regina e l’altra è il fante delle coppe, in ogni caso, entrambe condividono un desiderio di elevazione, mentre dietro di loro una parete bianca cela due porte, forse l’ingresso inaccessibile dei palazzi di queste due eroine. I semi della carte da gioco sono di origine indiana e indicano le quattro caste di quella società: i bastoni sono i contadini, le spade sono i guerrieri, i denari sono i commercianti e le coppe sono i sacerdoti. La coppa contiene il vino/sangue metafora dell’amore, del sentimento potente e universale che anima lo spirito degli artisti, degli esploratori, dei viaggiatori. Se chiedessi a qualcuno di immaginare Ulisse, il primo e più grande eroe del Mediterraneo e d’Occidente, certamente in pochi lo immaginerebbero armato. Ulisse è un Re di coppe.
Nel Museo Archeologico dei Campi Flegrei, c’è una scultura di Ulisse (I secolo d.C.) che regge una coppa per porgerla a Polifemo. Ulisse non è un re di guerra, vince gli scontri con l’astuzia, il suo regno non è sulla terra ferma ma sul mare. Nel ciclo dei “piccoli dei” Angela Andaloro ha dipinto un bambino in costume da bagno che tiene una conchiglia all’orecchio sinistro. Ha chiamato quest’opera “Il Canto delle Sirene”. Il piccolo Ulisse ascolta il mare dentro la conchiglia che in qualche modo è una coppa, una coppa in grado di contenere la vastità del mare. Il mare è l’archetipo della vita per eccellenza, la grande madre, l’utero universale dal quale discendono tutte le creature viventi. Il piccolo Ulisse si accosta alla conchiglia con gli occhi chiusi, il suo è un gesto poetico, un dolce gesto di ascolto sognante che possono concedersi solo i bambini e gli artisti. Tutta la pittura di Angela Andaloro è piena di questa dolce poesia del mare, tuttavia il suo non è un mare di superficiale vitalismo: il suo mare è un movimento increspante, il cambiare del tempo di fronte alla generazioni degli uomini, il pericolo dei flutti, il sogno che si butta in acqua, che si personifica.
A proposito di sogni che si fanno persone, il doppio “Ritratto di Nino Pracanica” presente in mostra, ha tutte le caratteristiche del sogno personificato. L’artista ha creato un efficace contrasto tra l’epidermide rugosa del costume e gli occhi di Pracanica che lampeggiano magnetici. Anzi, tutto il dipinto sembra imbevuto della magia arcana, ctonia e agreste della maschera. La bocca di Pracanica è serrata ma sembra pronta scoppiare con l’energia di un grido, lo scatto della parola che si ribella. Questo ritratto mostra una temperatura diversa, più brusca e ferrigna rispetto al sognante mondo pittorico di Angela Andaloro, a riprova della versatilità dell’immaginazione e del valore della sua pittura, sempre tecnicamente tersa, quanto poeticamente seducente. Dal mio punto di vista, il dato tecnico non è l’aspetto più importante nell’interpretazione di un artista. La tecnica è uno strumento e non è il fine dell’espressione estetica. Abbracciando la figurazione però, Angela Andaloro diventa chiaramente una narratrice, una creatrice di nuovi miti dove il sentimento personale è trasfigurato nell’immaginazione e trova un eco molteplice nel grande immaginario inconscio dell’umanità. Questo canto personale che diventa universale, custode dei suoi segreti, eppure aperto alla grande danza del mondo, mi pare una bella e potente opera d’arte.
Mosè Previti
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Testo critico per la mostra Il canto segreto della realtà
di Angela Andaloro
Teatro Vittorio Emanuele di Messina
Dal 8 al 18 novembre 2019
mostra all'interno del ciclo
"Opera al centro" DI Giuseppe La Motta
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