Assembramenti nell’arte
- Mosè Previti
- 21 nov 2020
- Tempo di lettura: 9 min
Aggiornamento: 22 nov 2020
Per i Greci l’assembramento è il grado di disorganizzazione della folla prima della sommossa ma anche il presupposto emotivo degli opliti accorsi a Maratona. Nel mondo greco, ordinato da sovrani ideali civili e filosofici, la folla scomposta è inconcepibile. Per i Greci anche la lotta risponde a un ordine, un canone, dove il caos (Dioniso) dialoga continuamente con un principio ordinatore (Apollo).
Nelle decorazioni scultoree del Partenone, Fidia raffigura la cavalleria ateniese al galoppo ma con una rigida e chiara scansione di tutte le figure. Nelle metope Centauri e Lapiti lottano, a due a due, mostrando tutta la potenza dei muscoli, in una danza feroce ma non scomposta. Per i Greci la folla sostiene i tiranni, i cittadini liberi, invece, non sono assembrati, ma ordinati, e quando sono chiamati a difendere la patria è proprio la disciplina a vincere i Persiani che sono una folla, un enorme assembramento di schiavi sottomessi al loro Re divino.

Roma ha una gran storia di assembramenti, infatti, Roma non era una città stato ma il centro di un impero enorme. La folla assembrata gioco un ruolo cruciale nella vita politica della Repubblica prima e poi nelle tumultuose vicende dell’Impero. Roma aveva una complessa organizzazione, amministrativa economica e sociale, che gestiva folle e assembramenti anche attraverso grandi spazi come i Fori e il Colosseo. Per secoli la folla romana fu sedata dalle stragi nell’anfiteatro Flavio e le gare al Circo Massimo.
In migliaia di monumenti la folla romana è assembrata in solenni cerimonie e occasioni pubbliche. Particolarmente importanti sono le due colonne istoriate romane, quella di Traiano (113 d.C.) e quella di Marco Aurelio (176-192 d.C). Questi monumenti sono una sorta di telegiornale di pietra che doveva illustrare pubblicamente i successi delle campagne militari imperiali. Specialmente nella colonna di Marco Aurelio la folla è da per tutto. Le figure dei romani e dei barbari conquistati occupano tutta la “pagina” del racconto, sopra sotto, di lato, l’esercito è innumerevole e gli artisti ricorrono a palchi, insegne e proporzioni aumentate per chiarire la gerarchia e rendere più chiaro l’ordine “politico” degli avvenimenti. Roma è stata la prima metropoli della storia occidentale, una città divenuta impero che ha sempre continuato a integrare culture e genti diverse in un ribollente calderone etnico e religioso rigidamente sottomesso alla lex e ai suoi rappresentanti.

Nel mondo medievale non mancarono gli assembramenti clamorosi. Il medioevo è stato tutta una corsa verso l’assembramento, cioè il ripopolamento delle città e delle campagne d’occidente dopo i secoli ristagnanti e oscuri succeduti al crollo dell’impero romano. Questo ripopolamento ha avuto una battuta d’arresto feroce nella Peste Nera che nel 1346 uccise un terzo della popolazione europea, causando all’incirca venti milioni di vittime.
Tutt’altro che oscuro, il mondo medievale era un gioioso e disordinato formicaio di uomini e attività, continuamente all’opera negli spazi, spesso insalubri, delle città. Nelle testimonianze artistiche troviamo una dicotomia morale piuttosto esplicita tra le schiere angeliche e il mondo caotico e oscuro dell’inferno. Uno su tutti, il magnifico affresco del Giudizio Universale di Giotto per la Cappella degli Scrovegni a Padova (1303-05), dove gli angeli sono una milizia perfettamente inquadrata mentre l’inferno è una sorta di enorme antro intestinale dove corpi nudi sono impiccati, infilzati, abbrustoliti e seviziati in ogni modo.

Un assembramento abbastanza fitto è quello, di poco posteriore, della grande Maestà realizzata da Duccio di Boninsegna per il Duomo di Siena. Anche qui le gerarchie celesti sono perfettamente schierate, paratatticamente, con rispetto rigoroso, tipicamente medievale, della teologia cui però fanno deroga i volti degli angeli sopra il trono, dolcemente imbambolati davanti al volto del Salvatore.

Se facciamo un salto di qualche secolo e ci spostiamo in un’altra regione d’Europa possiamo imbatterci in una delle più complesse macchine pittoriche della storia dell’arte: il Polittico dell’Agnello Mistico di Jan e Hubert Van Eyck realizzato per la cattedrale di San Bavone a Gand (1432). L’opera, che contiene anche i primi due nudi integrali dell’arte nordica, quelli di Adamo ed Eva, è una sorta di rappresentazione del Creato, completo di angeli, santi, patriarchi, papi, cardinali, vescovi, eremiti, re, mercanti e cavalieri. Nello sportello centrale, quello dell’agnello vero e proprio, il mega assembramento ha anche qualche figura meno idealizzata che farebbe pensare a dei ritratti, come l’uomo rossiccio dalla pelata rilucente che emerge nella folla dei barbuti e alteri ceffi a sinistra del grande altare. Proprio il dinamico mondo borghese delle Fiandre contribuirà enormemente al processo di emancipazione della figura umana dal ritratto corale legato a una committenza religiosa, a quello più nettamente privato.

Sul fronte degli assembramenti celesti è fondamentale citare quel groviglio paradisiaco che è l’Assunzione della Vergine (1530) del Correggio per la cupola del Duomo di Parma. Mentre la Vergine decolla nell’Empireo con un vorticoso moto dell’aria che le alza le vesti come nei migliori film di Hollywood, i corpi dei santi e degli angeli sono stipati l’uno sull’altro in un moto centrifugo scandito da nuvole dai riflessi cerulei. L’ascensione qui è totalmente mistica, dove per misticismo bisogna intendere soprattutto l’esperienza fisica della trascendenza, la vertigine sensuale dell’avvicinamento alla divinità.

Se i dannati erano sempre nudi, malamente ammassati e sottoposti alle astruse sevizie inventate dai pittori, prima del Giudizio Universale (1536-41) di Michelangelo era impossibile vederli insieme ai pesi massimi del Paradiso malamente coperti da braghe e drappi semi trasparenti. Nel Giudizio Universale, Michelangelo porta l’iconografia dell’assembramento al suo vertice assoluto. La ridda anatomica scultorea di questa titanomachia cristiana sfiora l’oscenità della pornografia allo scopo di imprimere ancora più violenza al solenne gesto di Cristo che, di fronte all’umanità cascante, alza le braccia in un solenne imprecazione.

La battaglia di Alessandro a Isso (1529) di Albrecht Altdorfer, oltre ad essere uno dei più grandi capolavori dell’arte tedesca, è anche, probabilmente il dipinto con maggiori figure al mondo. Si legge sul cartiglio in alto: «Alessandro Magno, sconfitto l'ultimo Dario, tra 100.000 fanti e più di 10.000 cavalieri uccisi tra le file dei persiani. Mentre il re Dario è riuscito a fuggire con non più di 1.000 cavalieri, sua madre, moglie e figli sono stati presi prigionieri.» L’opera è un documento straordinario dell’arte militare nel XVI secolo ma anche uno paesaggio potente e modernissimo che sfida all’occhio dello spettatore chiamato a immergersi nella mischia. Quegli anni rappresentano per l’Europa e la Germania un sanguinoso banco di prova dalle dimensioni tragiche e dalle conseguenze seminali per tutto la storia del continente. Con quest’opera usciamo dall’assembramento come rappresentazione celeste, teologico manifesto, per entrare nel fondamento della politica delle nazioni: la guerra, l’esercito, il mito della violenza e la sua sanguinosa interpretazione vissuta per lunghi secoli in questa parte di mondo.
Il Seicento è il secolo dell’architettura moderna. Con la Controriforma, la fine delle città stato italiane e la nascita degli Stati nazionali, il rapporto delle folle con il potere cambia totalmente. Gli ambienti diventano spazi travolgenti, luce e ombre giocano con tagli scioccanti per travolgere lo spettatore che viene rimbalzato dentro gli spazi ellittici della curva mistilinea barocca senza possibilità di dialogo, ma solo di totale, cieca, e assoluta ammirazione. Nasce così anche una pittura del privato triviale, la pittura di genere, della taverna, dell’osteria, dove il vino, gioco, la volgarità spinta, insomma la decadenza della ragione e l’impotenza della massa può mostrarsi in tutta la struggente essenza.

Il Bacco (1629) di Diego Velázquez è un mini assembramento, di quelli super vietati: aperitivo o cena con gli amici con fiumi di alcol e conseguente decadenza del divieto di distanziamento sociale. Il gruppo, con al centro il lipidico Bacco, è di quelli tipici dell’osterie di campagna: contadinotti dalla faccia color mattone, duri, spigolosi, lenti come aratri che si inchinano al dio con riverenza, ammirazione, allegria ma che in un attimo possono imbastire una rissa o architettare un incomprensibile sberleffo o precipitare in una rovinosa caduta nel fango, trascinandosi fino a casa cantando brutte canzoni oscenissime.

Altra scena di campagna, stavolta l’assembramento c’è ma non si vede. Nei Fortunati Casi dell’altalena (1767), una donna riccamente abbigliata è sospinta dal vecchio marito mentre una scarpetta vola sopra la testa di un giovane uomo nascosto nella fitta boscaglia. Jean-Honoré Fragonard è uno dei maggiori pittori del Settecento francese, l’amore è al centro della sua arte. Non è un amore romantico ma uno assai più prosaico, fatto di tradimenti, lettere, attese, intrighi, insomma un amore borghese, spregiudicato, totalmente mondano. Certo sembra un assurdo chiamare assembramento tre persone in un bosco ma se da una parte rientra nelle assurdità normative dell’era Covid, dall’altra il dipinto è uno scanzonato e ignaro manifesto del sentimento di integrale inconsapevolezza verso quello che sarebbe stato uno dei più clamorosi e devastanti assembramenti della storia, quello della Rivoluzione Francese. Il Settecento parigino se brilla di arte e di lusso sfrenato è perché sta bruciando di una crisi finanziaria che divora le casse dello stato. Il risultato di questa crisi sarà la presa della Bastiglia (1789) e la decapitazione di Luigi XVI (1793), in sostanza: La Rivoluzione.

In questo cruciale capitolo della storia del mondo, c’è un momento in cui l’assemblea si trasforma in pericoloso e sedizioso assembramento, ed è stato immortalato nel Giuramento della Pallacorda. Almeno, l’artista ci ha provato, perché, di fatto, dell’opera di Jacques Louis David abbiamo solo degli studi: un quadretto e un disegno. Il dipinto doveva essere magniloquente: 630 figure rappresentanti i membri dell’Assemblea Costituente con al centro Jean Sylvain Bailly, primo firmatario, sulla finestra di destra Jean Paul Marat e in primo piano Robespierre. Il quadro vero e proprio non fu mai realizzato perché, e siamo nel 1791, David era giacobino e le varie fazioni della Costituente sentivano chiaramente scricchiolare la loro “fratellanza”.
Il giuramento della sala della Pallacorda doveva essere un’opera gigantesca, il documento di un episodio cruciale per la storia della Monarchia francese. Poi sappiamo che le cose andarono diversamente e a Parigi, dopo il Terrore di Robespierre, venne un altro re, anzi un imperatore: Napoleone. Il generale corso è un uomo veramente moderno: viene dal basso, dall’assembramento sociale di quei minori che erano esclusi dai massimi vertici dello stato francese. Napoleone inaugura certo il secolo trionfante della borghesia ma apre la strada anche a quei figli di contadini, di piccoli commercianti che saranno poi gli ufficiali del suo esercito che metterà a ferro e fuoco l’Europa.

Durante il XIX secolo una quantità enorme di persone lascia le campagne per affollare le città in prede alla tumultuosa crescita urbanistica innescata dalla rivoluzione industriale. I contadini diventati operai affollano nuovi quartieri e, soprattutto, i bar come lo Scannatoio raccontato da Emile Zola nell’omonimo romanzo. Gli avventori dei bar saranno i soggetti prediletti dagli impressionisti. Tuttavia, i personaggi di Bazille, Monet, Degas sono sempre buoni borghesi che quando si incontrano stanno decorosamente a una certa distanza, come nella Riunione di Famiglia di Jean-Frédéric Bazille (1867).

In realtà, il primo film della storia, L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (1896) dei fratelli Lumier è un film sull’assembramento di una folla sulla banchina di una stazione. Un treno e le facce di gente totalmente anonima non erano mai diventati il centro di un’opera d’arte e, molto probabilmente, nelle intenzioni degli autori non vi era alcun anelito di “arte”. Tuttavia, il filmato lancia il 1896 nel Novecento a pieno titolo: a tutti sarà concesso un minuto di notorietà, la tecnologia dominerà la vita degli uomini e, soprattutto, sarà la folla, l’assembramento a dominare il secolo.
Rivoluzione russa, fascismo e nazismo, cultura popolare di massa, il Novecento è un mosaico gigantesco di figure, un mega assembramento di vite e fatti rivoluzionari di cui abbiamo il privilegio di sapere molto, anche se non tutto. Le due guerre soprattutto sono il sacrificio tragico di milioni di vite che avrà un lascito fondamentale per la storia dell’umanità.

A iniziare la pittura italiana del secolo è il celebre quadro de Il quarto stato (1902) di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Qui l’assembramento è monumentale, tuttavia non si tratta di una folla tumultuosa e scomposta, quanto, piuttosto, di una lenta marcia condotta da due personaggi barbuti, ieratici e monumentali come filosofi. Il dipinto divenne quasi subito uno dei simboli del socialismo italiano e un manifesto della lotta delle classi popolari.

Nel 1910, il giovane Boccioni, con Rissa in Galleria, rappresenta una zuffa per futili motivi, ma che ha tutto il dinamismo esplosivo, l’aggressività selvaggia del Futurismo e delle sue celebri scazzottate. Potrebbe anche considerarsi un anticipo di quel carnaio indicibile che sarà, di lì a poco, la prima guerra mondiale.
Dopo la secondo guerra mondiale, le folle iniziano a spandersi liberamente ovunque: dalla città alla campagna, alla montagna e, naturalmente, al mare. L’economia dei paesi europei, dopata dagli ingenti investimenti americani, concede anche alle folle degli operai, degli artigiani, insomma a tutti, un momento di libertà, le adorate ferie. In estate le spiagge diventano meta di una popolo colorato, in salute, festante e ormai libero di godersi la dolce vita come nel celebre dipinto di Guttuso, La Spiaggia del 1956.

C’è un luogo e un momento della vita dell’uomo del XX secolo in cui la folla, l’assembramento raggiunge le sue dimensioni massime, arrivando fino a raccogliere anche cinquecento mila o addirittura un milione di persone. Non si tratta di manifestazioni politiche né di eventi rivoluzionari ma di concerti. Da Woodstock in poi, il concerto è il rituale laico della religione pop, il momento di religiosa adorazione delle star, i divi del mito contemporaneo. Se gli anni ’80, grazie ad eventi come il Live Aid, sono l’acme della storia della folla raccolta per assistere a una performance, il massimo del disordine e della scompostezza dell’assembramento è raggiunto durante i concerti punk. Qui la folla non si limita soltanto a guardare a ballare ma inizia a spingersi, toccarsi, sostenere con le braccia coraggiosi fan che si lanciano dal palco. In questo olio senza titolo dell’artista tedesca Florian Süssmayr, è raffigurata una scena di lieto divertimento ultra assembrato che nella sua gioiosa pericolosità mette malinconia in confronto al sicuro, igenizzato e isolato mondo presente. Guardo questo dipinto con una certa nostalgia. Ho passato moltissime serate della mia vita su un palco, da musicista, e migliaia di altre notti da spettatore. Per quanto le cicale cantino di mondi digitali, futuri distopici di umanità chippate e isolate, tutti sappiamo che la razza umana assembrata, il sudore, l’amore, l’odio, lo spazio occupato dal corpo umano è il passato, il presente e il futuro dell’umanità.
Mosè Previti
Riproduzione Riservata

Comments