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Immagine del redattoreMosè Previti

Camera gun: La fotografia è un’arma



“Hanno dato il porto d’armi a tutti. La fotografia è un’arma e le persone sparano a casaccio”. Sintesi brillante di un pomeriggio soleggiato, davanti allo schermo. A parlare è Gianmarco Vetrano, fotografo e carissimo amico. Mi mostra il selfie dei due sorridenti figuri accanto a Maradona morto, un’imbarazzante istantanea proveniente dai momenti più veritieri dell’era digitale. Vetrano, da brillante fotografo qual è, riesce sempre a rappresentare sinteticamente la situazione con delle definizioni pregnanti, conseguenza di una caustica ingenuità che talvolta inciampa in gaffes micidiali.


Nell’istinto del fotografo c’è la predazione pura, condita di una quantità notevole di caso o per meglio dire, di fortuna propizia. Capire il momento, raccoglierlo e consegnarlo all’immortalità: è il talento principale degli artisti, dei poeti, che la fotografia ha consegnato in click a tutti gli esseri umani. La fotografia lotta con la morte della memoria con tutto la violenta capacità di riprodurre un feticcio plausibile del reale che, in fine, costituisce una realtà a se stante, più vera della realtà medesima. Per una ragione molto semplice, la fotografia è infinitamente riproducibile e oggi, immediatamente diffondibile. Viviamo in noi stessi, secondo noi stessi, la fotografia, invece, moltiplica l’io che ha rappresentato l’immagine e la diffonde fino a farla diventare miliardi di volte più importante della realtà stessa.


Quando Otto von Bismark (1898) morì, due fotografi professionisti di Amburgo, Max Priester e Willy Wilcke, si introdussero senza permesso nella sua camera da letto realizzando alcune fotografie che cercarono di vendere ai giornali dell’epoca. L’uomo che aveva fondato la Germania moderna era ritratto impietosamente: il cadavere di un anziano sul letto di morte, con il crudo dettaglio di una fascia attorno alla testa, tipico espediente universalmente usato per chiudere la bocca dei defunti (sic).

Erano i soldi a spingere Priester e Wilcke nel tentativo di scoop che fu la causa della rovina delle loro esistenze. Le foto, diffuse solo dopo il 1945, distruggevano l’iconografia popolare di un uomo che era un mito per tutti i tedeschi e un mostro d’acciaio per tutta l’Europa. Gli impiegati che hanno fotografato e diffuso le immagini della salma del Pibe de oro non agivano per fama o per soldi, il loro è stato un gesto del tutto inconsapevole delle conseguenze. Infatti, non hanno tentato di vendere gli scatti ma li hanno regalati, condividendoli, a tutte la infosfera che ha le ha fagocitate e digerite in men che non si dica.



Le foto testimoniano la totale inconsapevolezza del potenziale del mezzo fotografico da parte dei loro realizzatori ma anche l’altrettanto integrale inconsapevolezza geopolitica: Bismark sta alla Germania come Maradona all’Argentina e le fotografie sono finissime armi geopolitiche. Nella loro brutale invadenza restituiscono la profanazione totale di ogni contesto tipica della cultura popolare del mondo globalizzato e in qualche modo, pur nella fredda idiozia di una rappresentazione inopportuna, sono anche l’ultimo gesto d’amore di un’umanità che ha accettato di evolversi nello schermo, senza averne capito le conseguenze.


Fuori dall’analisi critica o della riflessione intellettuale, la direzione dell’umanità tecnologizzata fa rimpiangere la sorte dei nostri cugini primati. Dal punto di vista meramente tecnico e scientifico, il massimo che ci viene offerto sono le foto di Maradona morto e lo spopolare di gente che mostra un deretano ipertrofico. Non è esattamente il progresso che ci si aspettava dalla scienza tecnologica, nuova religione della certezza e del futuro che appare ogni giorno di più solo una forma di nevrosi invalidante dell’animo umano.

Mosè Previti

Riproduzione riservata


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