Il Museo del Novecento di Milano custodisce una ricca serie di capolavori del secolo passato. In questa piccola guida ho cercato di restituire le impressioni della percezione estetica e l'interpretazione del tutto personale di alcune opere di questo bel museo.
"Il Quarto Stato" fece la sua prima apparizione nel 1902 alla Quadriennale di Torino. Giuseppe Pellizza ci aveva lavorato per tre anni con numerosi studi e bozzetti preliminari. Il quadro non suscitò nessuna reazione da parte della critica.
Le dimensioni e l'impegno dell'opera facevano sperare all'artista che l'opera sarebbe finita nelle collezioni pubbliche. Il tema però era scabroso e l'artista morì suicida poco dopo, sommerso dai debiti. A decretare il successo del dipinto fu la diffusione fotografica sulle riviste socialiste, d'altra parte il dipinto parla di questo: l'avanzare della classe lavoratrice.
Tecnicamente è un dipinto prettamente divisionista, l'immagine che vediamo vibrare in questa luce cinematografica che è il risultato di una partitura fittissima di pennellate tono su tono.
Le figure sono modelli paesani con la dignità di statue, monumentali e dignitosissime.
Storicamente è un sorta di oracola visivo: la classe dei lavoratori avanza sulla scena per rivendicare il proprio posto (quello piccolo di piccolo borghesi), ma anche la folla delle campagne italiane che riempie le città, Milano su tutte.
Questa massa poi, sotto l'ex socialista Mussolini al soldo dell'industria urbana settentrionale, verrà tecnicamente deumanizzata e dal regime fascista. La autoconsapevolezza affamata d'ascesa della classe lavoratrice verrà usata dalle classe dominanti per la sua dominazione.
Il Quarto Stato apre il Museo del Novecento di Milano, così come il muro fotografico di Boetti lo chiude nell'ultima sala. L'artista da profeta pubblico diventa numeratore simbolico del narcisismo. Senza critica sul merito di queste opere diversissime, i due lavori documentano una svolta dell'energia culturale del mondo, da collettiva a individual - psicotica.
Braque e Picasso, dallo spagnolo definiti, con la tipica malignità megalomane, rispettivamente madre e padre del Cubismo, fecero di Ceret La Mecca dell'arte francese degli anni 10 del secolo scorso. In allegato il classico corredo di amorazzi, tradimenti, scandali, puttane, morti.
Per quanto Braque sia pittoricamente assai più "analitico", Picasso è sempre più felice, forte, aperto, sicuro, monumentale e poetico, insomma Picasso. Sotto lockdown opere come questa erano ricercatissime, prezzate ad oltre 15 milioni di euro.
Il museo del Novecento di Milano custodisce nella sua prima sala, oltre a Picasso, Klee, Kandinsky e Matisse anche Modigliani.
Intanto, liberando il campo dai campanili, bisogna dire che Modigliani è senza ombra di dubbio un pittore francese. La sua arte senza i contributi del museo etnografico del Trocadéro e senza Cezanne sarebbe del tutto diversa. L'artista contempera un finissimo gusto personale con il citazionismo dell'arte africana e gli ultimi sviluppi della pittura modernista, compreso un precocissima sensibilità brut.
La linea di contorno delle figure così come il campo cromatico dietro il personaggio ritratto sono già in via di emancipazione dalla figuratività, decisamente propensi a prendersi tutte le libertà dell'astrazione.
Ma la bellezza del "Ritratto di Paul Guillaume", gallerista del pittore, è soprattutto il frutto del grandissimo gusto di questo artista e anche della sua travolgente anima romantica e appassionata.
Questo è Mondrian prima dell'attacco di stipsi ascetica che si cristallizzerà nel Neoplasticismo. Bisognerà aspettare New York degli anni 50 per vederlo danzare con questa musicalità.
Continuando a malignare, l'arte di Mondrian, ormai celeberrima per aver ispirato le camerette di noi 80s, non poteva che essere olandese, pittura spilorcia all'inverosimile, spiritualmente pretenziosa quanto insignificante. Il dipinto è tecnicamente interessante quanto figurativamente ambiguo, perfino simbolico.
Klee, Wald Bau, 1919, Museo del Novecento, Milano. Il dipinto è sgraziatamente accoppiato con una composizione astratta di Kandinsky, 1916.
La "foresta" di Klee è modernissima, la coerenza nella composizione e i suoi molteplici punti di vista unificati, il geometrismo ostentato, irto di macchinosi angoli - trincee, e il brillante cromatismo schiacciano con rombo di cingoli l'opera delicatissima, quasi soave di Kandinsky.
Le due forme di astrattismo non potrebbero essere più diverse. Se l'allestimento stride per la disparità visiva tra i volumi delle due opere, il confronto funziona.
Il russo è certamente assai più attardato di Klee, pur nella primazia dell'invenzione astratta, ma Kandinsky recupera nella dialettica del segno. Lo svizzero si impone per il termine totalitario dell'angolo rettangolo e un'occupazione radicale del campo visivo.
Sul piano più prettamente prosaico: sono due opere milionarie e importanti, chi non le vorrebbe?
Ogni volta che si guarda Boccioni viene sempre la tristezza per averlo perso così presto. Il "Ritratto della Signora Virginia" è bellissimo, il pittore a 24 anni è un maestro fatto che padroneggia il Divisionismo con una felicità e una freschezza sfolgoranti.
La matrona è così vitale e positiva che sembra di essere lì di fronte a lei durante un pomeriggio domenicale a far due chiacchiere. L'abbacchio era ottimo e il vino pure, tra poco viene pure il maestro Balla e ci facciamo un caffettino. Cose così, piccole meraviglie della vita in un monumento di bellezza.
Quando hai un incidente in auto a sorprenderti è la durezza dell'urto, la violenza con cui due diverse forze cozzano irresistibilmente.
Il dinamismo su cui si concentrò Boccioni negli anni futuristi, "Elasticità" è del 1912, forse veniva dall'entusiasmo per la società incalzata dall'industria, la passione per la fotografia e per i cavalli, un desiderio di andare costantemente oltre, anche tecnicamente.
Il risultato è durissimo, forse da accludere alle speculazioni teoriche dei fisici di quegli anni. Boccioni che sta cercando di rappresentare il movimento dinamico pone, forse involontariamente, la questione enorme di cosa sia il tempo, utilizzando un medium tradizionalmente usato per ingannarlo e non per rappresentarlo.
Forme uniche nella continuità dello spazio" è un gesso, questo è di bronzo, l'originale sta in Brasile.
Sabato sono stato al sacro monte di Moncalvo e mi sono ricordato di Guido Mazzoni, scultore rinascimentale modenese autore di figure in terracotta a grandezza naturale per diverse cappelle di "sacri monti". C'è una sua Maddalena a Napoli che onestamente è dinamica altrettanto, d'altronde anche il superbo Angelo di Francesco Mochi al duomo di Orvieto non scherza neanche, ma il discorso del sacro monte fa un interessante corto circuito con questa scultura di Boccioni.
A parte che per visitare un sacro monte devi salire fisicamente tra i boschi, poi le cappelle di questi santuari ospitano scene sacre con personaggi a grandezza naturale assai realistiche, a volte molto kitsch, che pongono diverse questioni sui limiti intrinsechi della scultura così per come voleva superarli Boccioni.
A mio avviso, la scultura può restituire la vivida impressione del sentimento, coinvolgente dramma per il pellegrino del mondo, tuttavia il movimento quanto più si cerca di imprimerlo tanto più rimane bloccato nella fissità dei materiali.
Questa di Boccioni più che l'idea del movimento restituisce la piacevole sensazione tattile (v. Neuroscienze) dei volumi che si gonfiano per la forza del vento.
Il contributo di Boccioni mi pare più concettuale che estetico, seppur enorme. Le altre due sculture del periodo, "Antigrazioso" e "Sviluppo di una bottiglia nello spazio" si muovono con uguale forza nella stessa direzione programmatica più che realizzativa.
Il paragone classico che si vuole fare tra questa scultura e il "Nudo che scende le scale" di Duchamp (1912) dovrebbe tener conto dell'unica cosa che, sia nei linguaggi sia in natura, è in grado di generare movimento: il ritmo.
In questa prospettiva Duchamp è riuscito molto di più Boccioni nell'impresa di superare il limite intrinseco dell'immagine fissa.
«Ho ricevuto tuo vaglia - grazie, non dubitare del mio amore, è grande - puro, quanto il tuo - Perdona, permetti momento fragile, commosso, fammi arrossire e inumidire le palpebre - È tanto bello poter sentire la più viva prova d’un’amicizia tanto santa - tanto carnale - […] È molto tempo che ho bisogno prepotente di te, della tua vicinanza - Ore e ore, […] a letto nel dormiveglia, serale e mattinale - con Rosetta ricordiamo infiniti particolari, attimi vissuti a Capri, a Roma sempre con te, sempre vicini - nel caffè - nello studio - all’albergo - al teatro - sui marciapiedi - nel giardino».
Così scrive Depero all'artista svizzero Gilbert Clavel, protagonista di questo ritratto (1918) dell'artista futurista in esposizione permanente al Museo del Novecento di Milano. Clavel fu sostenitore e collaboratore di Depero in una fortunata stagione artistica che ha avuto nel teatro il suo apice.
L'artista trentino fu certamente uno dei maggiori futuristi ma egli era principalmente un creatore, un "uomo pratico" che cercò dovunque, al di là di ideologie e degli schieramenti, la propria strada. D'altra parte, all'inizio della sua carriera si definiva "scultore". Memoria di questo carriera iniziata con i monumenti funebri è il robusto quasi imponente senso plastico, evidente in tutta la sua produzione.
Depero è dritto, diretto, azzeccato nella paletta minima che procede a blocchi che si incastrano come pezzi di tetris. Egli opera una sintesi chiara e limpida dell'avanguardia futurista, epurata di ogni retaggio pittorico speculativo e/o astratto, lanciata con decisione sulla rotta geometrica della grafica moderna e della pubblicità di cui ancora in circolazione ci sono diversi celebri prototipi.
Questa "Composizione con fiammiferi" del 1914 di Ardengo Soffici appare nella "galleria dei futuristi" del Museo del Novecento di Milano.
Mi pare importante per tre ragioni: 1) è una pittura con dentro un oggetto vero. Picasso con Natura morta con "Sedia impagliata", di due anni prima, fu il primo ad accogliere nel medium pittorico lo stridente rumore di fondo del reale che la pittura combatteva, sublimandolo, fin dalla sua creazione. Dal mio punto di vista, il dipinto di Soffici è molto più bello del Picasso che funziona bene come provocazione e male come quadro.
2) Soffici è toscano, più o meno coetaneo di Marinetti, arrivi nel futurismo dopo averle buscate dai futuristi che ha stroncato con una recensione, ma in realtà non è un futurista.
3) Oltre ad aver un bel nome, l'artista ha il pregio di avere una sensibilità poetica che funziona ben anche in pittura, seppur vecchio stile. In politica è stato un vero proprio disastro ma questo non è un buon motivo per denigrarlo.
Morandi dipinge la pittura, più che qualcosa in particolare. Lo conosciamo tutti per le nature morte con le celebri bottiglie, sempre le stesse, sempre quelle.
C'è stato un Morandi metafisico, come in questa natura morta del '18 al Museo del Novecento di Milano. Il pittore bolognese da giovane è stato vicino, ma non partecipe, sia all'avanguardia futurista, sia al ritorno all'ordine di Valori Plastici. Credo però che tutta la sua carriera sia fatta di l'ossessionante piacere per l'arte pittorica.
Anche se il paesaggio smorto delle sue bottiglie sembra seppellire qualsiasi piacere, perché proprio il piacere è il motore perenne dell'immagine quale desiderio instancabile della cosa assente, credo che questo artista sia stato maniacalmente attratto dalla pittura come spazio di distribuzione della materia/forma/colore.
Tutta la sua arte è la celebrazione di un matrimonio indissolubile con la pratica del rappresentare attraverso il mezzo bidimensionale. In quest'opera sentiamo la Metafisica scorrere potente, se non fosse che qui l'artista non scimmiotta il Rinascimento magicamente risuscitato dagli studi longhiani su Piero della Francesca, qui l'artista intende dipingere come Piero della Francesca, con lo stesso principio geometrico, con la stessa qualità tecnica, altissima. La luce è presenza di Dio perché il pittore l'ha fatta presente, lui l'ha governata. Qui come in tutte le altre opere di Morandi.
E quindi, oggetti, cose che sembrerebbero metafora funeraria del tempo ma sono invece l'amante inebriante di un piacere inestinguibile per la pittura che finge il mondo, meglio del mondo.
Capogrossi al museo del Novecento di Milano, con una bellissima opera "Superficie 479" del 1963.
Giuseppe Capogrossi è nato nel 1900 ed è morto nel 1972, la sua vita attraverso il secolo più terribile e meraviglioso della storia, o forse quello che conosciamo meglio, un secolo di tremendi cambiamenti che troviamo anche nella pittura di Capogrossi.
L'artista romano fortifica il suo linguaggio pittorico in quel clima di ritorno all'ordine tra le due guerre mondiali che egli interpreta magnificamente con una propria vena narrativa surreale e brillantemente romantica.
Alla fine della guerra il suo linguaggio cambia radicalmente. Così come aveva ben prodotto nel suo peridio figurativo, creando un preciso immaginario riconducibile al suo talento, anche l'approccio al mondo astratto è del tutto personale.
Capogrossi, superando con precisione e nettezza i pittori delle generazioni successive, concentra la sua produzione sul segno, inventandone uno suo, perfettamente identificativo, perfettamente riconoscibile.
L'astratto, come tutte l'arte contemporanea, non gode di particolare fortuna in Italia, a causa di una cattiva educazione artistica e una diffidenza esplicita verso l'innovazione.
Sull'astratto non c'è molto da spiegare. Nessuno quando ascolta la musica vuole che la si spieghi. L'astratto come la musica è un linguaggio autonomo che va oltre la narrazione, va oltre la logica esplicata del linguaggio verbale.
L'astrattismo è la pittura nella sua più radicale emancipazione dal reale, forma pura, emozione pura. Nel caso di Capogrossi va aggiunto il dato del segno come impronta dell'identità personale. Nessuna mano è uguale, nessuna anima si somiglia.
P.S. Si veda anche l'americano Franz Kline.
La celebre "Merda d'artista" al museo del Novecento di Milano. Purtroppo nella comune lettura di quest'opera manca una considerazione: Manzoni provocava e ironizzava l'arte francese coeva, Yves Klein soprattutto, di cui rappresentò la versione italiana ancora più dissacrante e forse meno poetica.
Osvaldo Licini, Angelo ribelle, 1950-52, Museo del Novecento, Milano.
L'angelo è figura celestiale, superiore, vicina a Dio, quindi alla Legge, all'ordine prestabilito. Ma l'angelo ribelle è ancora più vicino al Creatore, perché violandone i principi all'interno di armonia divina ne rinnova i fondamentali, guida l'universo verso una nuova sintesi.
A parte l'esegesi teologica, Licini è ha incarnato l'idea di un'arte in movimento costante, in perpetua erranza eppure senza caos, senza sgomento. Il suo angelo è un guizzo grafico su una campitura elementare ma che riassume perfettamente il senso del balzo, del superamento dell'angelo artista, dal mondo divino alla blu marino della vita.
La struttura al Neon (1951 c.) per la IX Triennale di Milano di Lucio Fontana esiste in 4 ricostruzioni, qui è quella del Museo del Novecento.
L'opera è importante perché: 1) è uno dei simboli del magico momento di ricostruzione che dal 1947 - 1957 vide l'Italia passare da paese agricolo distrutto a potenza economica in ascesa; 2) questo simbolo è testimone insieme della creatività italiana e della capacità di innovazione della nostra tradizione artigianale e manifatturiera, giustamente messa in dialogo in questo spazio con la piazza del duomo di Milano; 3) descrive bene quanto fosse avanti Lucio Fontana anche rispetto ad artisti molto più giovani rallentati da sadomasochistiche polemiche intorno alla politica polemica pittorica astrattismo-figurazione.
Emilio Vedova, Sopraffazione n. 1, 1960.
Partito futurista, Vedova è stato tra i gli italiani dell'Informale quello che ha sviluppato con maggior efficacia l'immediatismo segnico, la gestualità improvvisativa, l'energia dinamica che sviluppandosi da una matrice grafica poi giunge a questi drammatici ed efficacissimi esiti espressivi.
Lo si è visto dipingere con la scopa, per esempio gli artisti "Gutai" dipingevano a cazzotti, questo potrebbe farlo sembrare un artista della trovata ma credo che in tutta la sua opera ci sia la grande orma, di colore, di luce e di temperamento, della superba pittura veneziana.
Ho una certa difficoltà a mettermi in dialogo con la scultura, specialmente se così robusta, altera e pietroso coma quella di Marino Marini. Il museo del Novecento di Milano ne ospita un corpus ben nutrito.
Anche nelle piccole dimensioni questi lavori hanno la potenza del monumento, l'eroismo della materia che rimodellata non può fare a meno di mostrare i blasoni del suo passato di sforzo continuo.
Tutto questo è per me bellissimo, di altissimo livello ma inevitabilmente pesante, pretenzioso e non musicale, forse condannato a guardare il tempo con la faccia persa delle opere che vogliono combatterlo fin dal principio e quindi sono destinate a perderlo. Il tempo non si combatte, si va con lui, si danza.
Emilio Tadini, La ragazza di stoffa, 1969.
Tadini è da annoverare in quel gruppo di artisti (Hockney, Adami, Monory) che tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento cercarono di rinnovare la pittura battendo strade nuove, diverse.
Del gruppo che ho nominato prima, Tadini, per qualità pittorica e volume intellettuale, è il mio preferito. L'eleganza asciutta e musicalissima della sua pittura è come uno swing riammodernato, erotico, esotico. Tadini in pittura equivale a Paolo Conte in musica.
Valerio Adami, La cameriera di buon cuore, 1968.
La pop art ha avuto in Italia percorsi ibridi che hanno trovato epigoni singolari e molto superiori, per qualità tecnica e talento, alle matrici americane.
Adami è tra questi ricercatori. Il suo figurativo, apparentemente pop, altamente digeribile per l'occhio bulimico dell'uomo pigro contemporaneo, in realtà custodisce un altissimo livello di composizione cromatica e avanzata ricerca grafica.
Il risultato è che, chiunque tu sia, critico d'arte o tua nonna, Adami ti ferma, ti piace e si fa guardare, uno te lo porteresti a casa.
Mosè Previti © 2020
Foto courtesy Museo del Novecento
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