Almeno una volta nella vita è capitato a tutti di dover faticare fino al limite, lavorando magari 12 – 18, addirittura anche 24 ore di fila. Questo tipo di sforzi presuppone solo due possibili finali: un grande trionfo o una poderosa sconfitta. Tuttavia, se è la prassi del nostro lavoro, creativo o meno, forse bisogna prendere in considerazione l’idea che non stiamo lavorando per bene. Ma andiamo oltre, surfiamo sulle analogie, allarghiamo lo sguardo.
Per definire gli artisti dell’arte contemporanea di oggi possiamo usare due grandi definizioni, due facili categorie: gli artisti che intendono educare, guidare e cambiare la società e quelli che intendono sedurla. Gli artisti missionari, politici, che percorrono una loro traiettoria antistorica, in polemica e in vera rottura sono “solitamente” al di fuori del mercato, spesso molto di loro muoiono sconosciuti, alcuni non intendono neanche mostrare il loro lavoro, quindi è impossibile una valutazione, o anche un semplice incontro.
Questo tipo di artisti possono essere anche di assoluto successo se si trovano ad operare in un contesto storico favorevole e se trovano la formula giusta per il loro messaggio. Mi riferisco, ad esempio, a Beuys e anche a tutto il gruppo del Bauhaus che di fatto ha programmaticamente cambiato il mondo del design, dell’ architettura e della cultura visiva con un intento chiaramente pedagogico. Pedagogica è sembrata anche la Street art per un certo momento. Complice anche la grande superficialità dei mezzi di informazione, a un certo punto ci siamo convinti che la Street Art fosse una qualche forma di risposta all’assenza strutturale della società, al sostanziale collasso delle strutture di assistenza ed educazione che operavano anche nei contesti più difficili.
Molti artisti hanno usato il momento dello Street Art per costruire la loro carriera e questo non è affatto un problema. Alcuni di loro, molto coerenti, come Blu ad esempio, si sono rifiutati di trasformare le loro opere pubbliche in occasioni di business per pochi. Altri, come Banksy hanno trasformato alcune geniali iconografie in un marchio industriale, ormai lontano milioni di chilometri da qualsiasi anelito educativo o politico. Banksy è sotto ogni punto di vista un artista kitsch, il più kitsch tra gli artisti in un mondo che è felice di essersi trasformato esso stesso in un’opera d’arte kitsch. Nulla di male, Banksy ha utilizzato il linguaggio e i temi dei media per rivolgersi e farsi capire dal suo pubblico. Con infallibile istinto, supportato da una chiara tecnica di marketing, Banksy si è rivolto al suo target: middle age, middle class, progressista, anti razzista e pacifista, con una cultura media, plasmata quotidianamente dai mezzi di informazione. Banksy ha trasformato le notizie più scabrose, i temi caldi, le guerre e tutte le faccende complesse della politica internazionale, in santini da mettere sulle copertine dei dischi, nei poster, sulle cover dei cellulari, sulle bacheca di Facebook. Banksy non intende sovvertire né educare niente, il suo è un lavoro in superficie molto gradevole, i cui effetti culturali però sono tutti da verificare sul lungo periodo.
Arte sincera, arte di mercato, sacrificio contro successo. Divaricazioni soltanto ideali, dal mio punto di vista. Ideale è, di fatto, la certezza che l’arte debba educare e debba essere maestra di qualcosa, questa è una possibilità, e non è un dato di fatto, non è una necessità né uno scopo dell’arte. Arte come intrattenimento, come compiacimento del gusto del pubblico, anche questa è una possibilità, un’occasione di carriera ma che ti brucia se non stai attento. Il pubblico ha gusti molto veloci e l’attuale è anche futile e mortale.
Il sacrificio, cioè l’immolazione di energie, tempo, denaro, forze, affetti in nome di un risultato più alto è nobile nel breve periodo, ma è qualcosa che può distruggere il creativo. Lavorare, creare, amare sono cose che non presuppongono la perdita della nostra dignità. Quando un capo, un committente, un progetto richiede il sacrificio sempre maggiore, chiediamoci se ne vale la pena, chiediamoci se è giusto. Dare avere, bianco e nero, in & out, il mondo è doppio come il piatto della bilancia. La bilancia deve stare in equilibrio, non può essere il sangue, la nostra fatica a tenerle sempre in piede, sempre, nonostante. Questo equilibrio è poi il grande successo di una produzione, di un lavoro, di un’opera d’arte ma anche di una vita ben spesa. Se intendete sacrificarvi, se volete immolare grandi energie per un progetto artistico, un obiettivo professionale, un traguardo di vita, fatelo con la solennità che merita e con la consapevolezza che insieme al nostro lavoro, sull’altare del sacrificio abbiamo messo anche la nostra vita.
Mosè Previti © 2022
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