Il mare sa tutto. Il mare ha visto tutto: eroi, guerre, viaggi, speranze, sogni, santi, profeti, città, pirati, nobili e artisti. I mari si dice siano sette o forse più. Forse il mare è uno, un’unica creatura biologica da cui è nata la vita sulla terra e da cui è nata, ed è passata, tutta la civiltà. Di tutti gli angoli del mare, il mar Mediterraneo è quello certamente più antropizzato, più umano: la culla dell’Occidente e dell’Oriente. Il Mediterraneo, infatti, non è solo latinamente nostrum, ma è prima ancora la Θάλασσα dei greci, genitori della Sicilia e della cultura italica meridionale, e poi, più avanti, il mare attraversato dagli arabi che a Potiers (732) incontrarono gli uomini che per la prima volta vennero chiamati “europei”1, è il mare dei turchi che a Lepanto (1571) persero una battaglia ma che togliendo Cipro a Venezia del Mediterraneo levantino, per lungo tempo, fecero cosa loro. Il Mediterraneo è quindi certamente un mare con tutte le sue precise e specialissime caratteristiche biologiche e geografiche ma, soprattutto, il Mediterraneo è il primo elemento naturale che l’uomo ha trasformato in “luogo culturale”, un laboratorio di lingue, commerci, governi, miti e poemi, suggestione perenne per artisti di ogni epoca. Il Mediterraneo è forse una nazione a se stante, un continente di mezzo con cui, oggi più che mai, bisogna fare i conti. I grandi media evitano di nominarlo direttamente, il suo nome riscalda gli animi, per cui si usa più che altro strumentalmente per indicare le diete, un tipo di abbigliamento e certe mete turistiche.
Ma queste destinazioni, questi luoghi che nel sentire comune sono, per lo più, svago della vita continentale e metropolitana, avrebbero parecchio da ridere, potrebbero aggiungere molto a questa cartolina agognata dal continente. Prendiamo un’isola a caso: la Sicilia che del Mediterraneo è figlia direttissima per geografia e cultura. Se la si considera nel suo legittimo rapporto con il mare, aprendo bene gli occhi e le orecchie, si deve dire come stanno le cose: la Sicilia è isola ma estesa, lungamente protratta per miglia e miglia oltre la sue coste. La Sicilia cuore del Mediterraneo ha un blasone lungo tre millenni che la certifica collegata con il mondo: dall’Egitto dei primi navigatori preistorici che partivano da lì per le Eolie commercio d’ossidiana, passando per la Grecia e poi Romani, Visigoti, Arabi, Normanni, Angioini, Spagnoli, Inglesi, e Piemontesi, la lista è solo un elenco blando che non rende la complessità di un’isola orgogliosa di star sola ma che ha avuto le sue periferie in tutto il continente.
Nel 1843 nel monastero benedettino della città di Ebstorf, in Sassonia, venne scoperta una magnifica mappa su trenta pergamene magistralmente rilegate. Misurava tre metri e mezzo di diametro e destò l’ammirazione di tutta Europa. Purtroppo venne distrutta durante la seconda guerra mondiale, oggi la conosciamo solo grazie alla documentazione fotografica che ne ha preservato la memoria. L’autore della mappa si chiamava Gervasio e la sua opera appartiene alla tipologie di mappa a T e O tipiche del medioevo. Come tutte le mappe di quell’epoca, anche questa è una rappresentazione ideale del mondo allora conosciuto. Al centro di questo mondo c’è Gerusalemme, la città di Dio, conseguentemente tutto il resto ruota su questo centro. Ma poco più in basso abbiamo qualcosa di strano. Nel mezzo del mare un pezzo di terra a forma di cuore: la Sicilia. Non sappiamo perché l’autore della mappa rese così l’Isola, forse si tratta di un caso, forse il risultato della lettura dei resoconti o di quei “portalani”, i diari di bordo dei naviganti che descrivevano l’orografia del territorio. Le motivazioni storiche poco contano, la Sicilia rimane negli occhi con quella forma precisa, dolce e gentile, di cuore. Caso o volontà, la figura simbolica corrisponde alla realtà: la Sicilia è geograficamente e culturalmente il luogo principale di incontro di tutte le civiltà Mediterranee, un cuore che pulsa di stirpi dal sangue diversissimo antico e pur incandescente. Il Mediterraneo è quindi il sangue arterioso di questo organo pulsante: la Sicilia. Tale e tanta è la vastità di questo incontro che c’è e ci sarà posto per tutti i transiti, gli scambi e le contaminazioni.
Ma non possiamo rimanere con un sorriso soddisfatto, l’affare deve farsi problematico, complesso, reale. Entrano gli artisti che della realtà fanno la materia del loro lavoro, del mondo offrono una visione personale e sensibile che apre tutti i temi e tutti i campi. In questo senso la mostra organizzata dal gruppo Mutualpass vuole essere una riflessione ampia e articolata intorno ai temi del Mar Mediterraneo e della Sicilia. Il pretesto viene dalle celebrazioni per l’anniversario della battaglia di Lepanto (1571) che vide l’armata cristiana, un’inusuale alleanza di acerrimi nemici, combattere le navi dell’impero Ottomano. Il conflitto si risolse con la vittoria dei Cristiani ma la mostra presente non intende fare un ricalco o un manifesto di questo cruciale evento storico. Sono stati scelti i lavori di ventisette artisti in grado di aprire le possibilità di una ricerca di senso intorno al mar Mediterraneo in tutta la sua complessità: spazio del mito epico, luogo di conflitto, via di migrazione, potenza inconscia del desiderio, via di comunicazione. La mostra vuole essere una ricerca, esteticamente curata e concettualmente strutturata, intorno al Mediterraneo e al suo cuore siciliano.
Forse con troppa superficialità è stata accettata la vulgata che vuole l’Isola e il suo mare come dei fatti decorativi e di contorno rispetto ai grandi mutamenti e alle grandi conflagrazioni della nostra epoca. L’ipotesi di questa mostra, invece, è un altro. Dal cuore del Mediterraneo si può vedere meglio lo stato del nostro tempo. Vedere meglio vuol dire non semplificare ma amplificare, affrontare anche il conflitto, congiungere sensi diversi e cercarne altri in un’apertura che è gradevole all’occhio ma che, soprattutto, si prefiggere di andare al cuore e alla mente di chi guarda, per connettere queste immagini con la marea iridescente e imprendibile di questa epoca.
Le opere in mostra appartengono ad artisti con stili, profili e identità diverse.
La selezione impostata da Luigi Mondello ha avuto come tema portante quello del mare in tutte le sue possibili declinazioni stilistiche, iconografiche e interpretative.
L’onda è una scia di colpi di pennello per Antonello Arena che anima la superfice dell’opera in un tempestoso incontro di gesti ampi e oppositivi. L’astrazione qui parte della natura, imposta la possibilità del segno e del colore, elettrico e gassoso come le striature dei nembi di certi tramonti. La linea di un utopico orizzonte divide i campi di questo tempestoso movimento dagli accenti diversi in cui toni come strumenti, si integrano in un dialogo serrato.
Blu marino e mistico quello del dittico di Maria Berenato, elegante composizione animata da un’energia vibrante e molto ben accordata. I flutti sono screziati di un rosso drammatico, l’espressionismo astratto dell’artista, arricchito da tensioni materiche, apre nell’immaginazione dello spettatore una dimensione psicologica e spirituale che pur agitata da un segno articolato e cangiante rimane sedotta e indefinitamente coinvolta da un’energia misteriosamente emersa dalle profondità dell’opera.
Il mare nostrum è diventato di Coca Cola, uomini come sagome segnate di gesso dopo un omicidio. Con uno stile minimal pop efficace e drammatico insieme, Antonello Bonanno Conti denuncia con grande acutezza le contraddizioni della nostra epoca. Il logo del prodotto commerciale più noto al globo è un epitaffio cimiteriale e insieme il simbolo della società occidentale sempre più dominata da contrasti e conflitti.
Il "mare nostrum” del titolo acuisce la ferita e rinsalda in un giro concettale organico e pregnante il valore di questa opera icastica. L’informale di Pippo Brancato è una composizione aperta, una ricerca complessa che lascia intuire la figura di una barca nel mare in tempesta. L’immagine sembra avere la durezza dell’osso, come la mascella del pescecane che si chiude per spaccare la preda. Ci sono forse simboli, ma rimaniamo soggiogati alla potenza non verbale e non figurativa dell’immagine, un sentimento con il pugno chiuso arriva alla pancia con lo sbandamento degli incubi, l’opera parla all’inconscio con un terrificante spaurimento che ci tiene avvinti.
Le ore del mare, tutti i secondi diverse, immortalate da Simone Caliò, in questo dittico verticale giunto dal legno pellegrino, forse albero, forse remo un giorno colto dall’artista sulla spiaggia insieme all’impressioni del tempo. La pittura di Caliò, veloce e vibratile, medita, dolcemente trasportata, l’incalzare irreversibile delle ore che nella superficie cangiante delle acque sembrano offrire la possibilità di un ritratto metafisico della dimensione impalabile e irresistibile del tempo, vita e morte di tutte le cose.
Concetta De Pasquale è pittrice del viaggio, cartografa dell’emozione del mare. La sua pittura è propriamente una registrazione fisica delle rotte percorse e di quelle ancora da attraversare. Qui la carta nautica “Da Nizza a Piombino” di venta il supporto della sua opera su cu si staglia un biancore di vela e l suo drappeggiare sulle onde. Il tempo incornicia con le sue pieghe e le sue erosioni la tratta che diventa metafora della vita, testimonianza del suo continuo veleggiare. Terra e spuma di mare si mischiano nella stessa sostanza del supporto che sembra essere nata pronta per accogliere il segno velato e insieme carnoso dell’artista.
Come un’antica e misteriosa mappa ritrovata, l’opera di Ilenia Delfino è compartita da un ritmo di quadrilateri su cui pare essersi depositata la polvere del tempo. L’opera pare riprendere la disposizione delle galere durante la battaglia di Lepanto (1571), ma qui l’artista enfatizza gli effetti di rappresentazione topografica trasformando le imbarcazioni in una sorta di immaginaria ludica battaglia navale. L’immagine si sposta dalla storia e dal reale per un ulteriore racconto fascinoso dove più che il mare sembra di guardare le nuvole e i loro mutevoli racconti.
Naufraghi in questo mare veramente tremendo, i personaggi di Antonino Gambadoro derelitti e sconfitti dalla tempesta, allungano il panno bianco mentre una nave solca le acque con una promessa di soccorso. La scena di salvataggio non è la sola protagonista dell’opera. Qui il mare rivela la sua faccia spietata di mostro divoratore di uomini, la tensione epica della scena supera le contingenze contemporanee delle stragi migratorie per tornare ai fondamentali dell’uomo e alla sua lotta perenne contro l’ignoto dell’esistenza verso la salvezza.
Le guerre di religione erano anche meno guerre di quello che oggi ci si immagina, la visione del mondo come battaglia di fedeli contro infedeli, buoni contro cattivi, era insospettabilmente più sottile, meno drastica nel medioevo crociato. La luce della croce e la luna dell’Islam lontano su un paesaggio luminoso, un corteo di guerrieri. Non abbiamo molte spiegazioni, Gaetano La Fauci sospende ogni giudizio forse per un’immagine suggerimento di una luminosa convivenza.
Coordinate di un punto nello spazio di una carta immaginaria al chiarore di luna. Alessandra Lanese traccia una possibile rotta per l’occhio dello spettatore avviluppato nelle campiture della superficie dell’opera. Le due rette creano un principio d’ordine cartesiano e maschile che forse è da leggersi in opposizione alla luna che emerge tra le nubi. L’artista non spiega il paesaggio ideale è un luogo dove si possono trovare miriadi di significati, la rotta è aperta, come l’opera, al sentimento esplorativo dello spettatore che segue la ricerca dell’artista, in movimento intellettuale aereo e volatile come ogni viaggio che non si ferma nei porti sicuri.
Le teste dei pupi paladini sulle dune sembrano dormire, non sono morti, la guerra per gioco forse finita con il teatro ormai chiuso, il puparo li ha lasciati lì ad aspettare un altro spettacolo. Mantilla mette in scena, con la consueta originale inventiva, un’immagine quasi letteraria, c’è un racconto di cui forse vediamo l’inizio o la fine tragica eppure senza spargimento di sangue. L’artista toglie i denti aguzzi alla guerra, c’è forse qui una traccia della sua costante meditazione sulle cose della vita e della morte, in quella sua propria maniera netta e secca che come il ragionamento dei filosofi arriva al punto scansando ogni retorica, secondo quella prospettiva speciale che gli appartiene.
Lasciando lo spettatore davanti al dramma di un corpo annegato, Josè Martino aggiunge un titolo apparentemente incompleto. Troncando il celebre titolo del romanzo di Primo Levi (1986), l’artista supera la narrazione del dramma dei migranti, il suo pare un discorso più profondo e generale. Forse si tratta di un paradigma della nostra condizione di salvati, quindi inermi e disillusi spettatori di un mondo incredibilmente crudele che ci ammazza o che ci fa fingere morti di fronte al suo dramma.
Con forme organiche, da un profondissimo scuro forse una barca, Claudio Militti crea un’opera dove il dramma non è spiegato eppure le forme sembrano alludervi, seppur con la gentile cura di onde dolcemente pettinate come capelli. Il rosso dello scafo, che pare lingua e carne, è vita e insieme dramma che si impone nella notte, ma sembra esserci una possibilità di salvezza in questa notte buia mossa e spessa come catrame: è un arcobaleno boreale che fa impennare l’imbarcazione oltre i flutti notturni e risucchianti.
Una burrasca pittorica esplosiva come una guerra ma delicata e fiorita come certi petali. Lidia Monachino immagina un mare venziano, flutti pennellata su pennellata, sbuffi di una pittura turneriana. Il racconto ha la patina dolcissima di una favola, il sentimento della natura e il colore dell’arte hanno vinto i vascelli in balia delle onde. Tra le onde uomini e cose, l’agitazione è qui una guerra carica di vita che si imprime nella nostra immaginazione come i tramonti dell’infanzia.
Una sorta di boa dorata ondeggia, tirata da due capi opposti di cui non vediamo la fine. Sembra esserci un movimento, forse la boa rimane sullo stesso punto. Riccardo Orlando con grandi pennellate muove un mare iridescente, se mare può dirsi il ritmico incalzare della sua pennellata piatta e asciutta ricca di un dinamismo geometrico. La tensione immaginifica della boa ci interroga sul suo senso, forse una metafora della vita, forse di una scelta, certamente l’oro non ci inganna, è preziosa la boa e tiene gli opposti nel suo centro piegandosi e senza cedere alla forza della cima e dei flutti.
Un memento mori marinaresco, plumbeo e meditativo quello di Paolo Piccione. Un uomo raccoglie, o forse lascia andare, una lisca di pesce accanto alla prua di una barca, pensoso e assorto, pietroso come certi rinascimentali San Girolamo ritratti nella loro grotta in dialogo con la divinità mentre stringono tra le mani la durezza del sasso. Una materia pittorica densa, cromaticamente uniforme e volumetricamente coerente costruisce questa immagine che sembra misteriosamente riecheggiare l’ambientazione di Horcinus Orca (1975) di Stefano D’Arrigo, epico romanzo della rena e della morte che proprio sulle coste siciliane dello Stretto di Messina si svolge nel suo lento scivolare verso la fine di ‘Ndria Cambria.
Evoca un relitto, un pezzo di paesaggio, una reliquia del mare. L’opera di Pippo Pittaccio sembra pure una ferita nello spazio bianco del tempo umano, un ex voto che racconta il sangue del dramma, le cortine di ferro e i viaggi che finiscono nel fondo del mare. Organicamente in ogni particolare, l’opera di Pittaccio racconta le innumerevoli catastrofi di un relitto, la materia parla come in un romanzo. Un pezzo di teatro, tutti buchi e croste mentre, forse, una salvezza viene come le cime dei salvataggi. L’artista come un regista fa vivere il dramma interamente, con una struggente profondità di dettagli, di ipotesi dolorose sapientemente sciolte e poi salvate sotto il nostro sguardo.
Stello Quartarone incorpora nelle forme della materia il mondo ideale dello spirito con tutti i suoi possibili rivolgimenti. Il suo lavoro è intellettualmente e artisticamente connesso con le grande ricerca della psicanlisi junghiana e tutto i suoi relativi portati dell’inconscio e del sogno. Qui i “sogni infranti” sembrano essere rappresentati dalle sferette incastonate nella materia blu oltremare dove campeggia una grande croce, simbolo di salvazione spirituale ma anche di termine, ultimo momento di un viaggio odissiaco che sospinge gli uomini in mare. L’epidermide dell’opera sembra carnosa e spessa come quella di un corpo marino, di un cadavere in mare trasportato dalle correnti che raccolgono e spazzano, a centinaia, i sogni e gli uomini infranti.
L’uomo in barca di Giuseppe Raffaele è tutto barca, il suo remo è un bastone che lo sospinge sulla superficie erosa del ferro. L’uomo e la barca sono cosa sola, una ridda di fili lo tiene avvinto allo scafo. La scultura geneticamente grafica di Giuseppe Raffaele nella composizione fa dimenticare la verità materica per trasformarsi in eventualità biologica. L’uomo è forse bloccato dai suoi legami, c’è forse in lui desiderio di terra e il suo remo è diventato quello di Ulisse in cerca di una nuova terra in cui approdare e trasmettere l’invenzione dell’andare per mare.
Nino Rigano con il suo stile compendiario, veloce ed efficace, ricostruisce idealmente la vita moderna degli abitanti dello Stretto di Messina in quel braccio di mare universalmente amato di cui i due “piloni” sono i mitici guardiani. Una folla variopinta e disordinata affolla la strada mentre le feluche danzano con le loro passerelle in rotte che sanno di prossimi duelli. Grandi navi passano e dentro e fuori il braccio di mare, l’artista lascia alla nostra immaginazione il gusto di riempire di dettagli del suo racconto tipico e vitale.
Con il pennello a mo’ di stiletto, colpi di spatola come fendenti spadaccini, Dimitri Salonia raffigura la battaglia con un fragore elegantissimo di colori complementari concertati nella baraonda che è insieme astrazione e citazione della grande pittura rifoggiata con gusto in un turbinio quasi futurista. La scena fa una musica di che è più vicina al piano di Debussy e i suoi iridescenti cromatismi che alle bombarde epiche delle marce militari e un certo alito divino, soprannaturale si agita sulla scena dove il tocco tachistico imprevisto può sbozzare vere figure di guerrieri resistenti. La notte è la soglia di una dimensione altra, misteriosa, non razionale. La notte fatta di sogni e si stelle è ll tempo dell’incontro onirico per eccellenza.
L’opera di Alfredo Santoro è un paesaggio liquido in cui pescatori si aggirano con reti e tridenti scrutando pesci che dormono come gli uomini. Il notturno del pittore messinese sembra essere stato catturato dalle acque dello Stretto di Messina durante una tersa veglia di luna piana, quando la luce della lampara crea porte per dimensioni altre, incerte e mutevoli come i contorni delle cose che si confondono e si mischiano in nuove forme, nuove calde suggestioni sotto l’ombra lunga del vulcano eruttante.
Piero Serboli ha trasformato la Sicilia in una valigia. La sua opera è una piccola macchina scenografica carica di allusioni al moto migratorio dell’Isola, approdo e partenza per i suoi abitanti e le mille razze del suo popolo. Si alza ora dal supporto bianco elegante, per essere portata altrove, lei cuore mediterraneo, con una mossa che pare volante, si stacca e con la sua maniglia mare blu e si offre allo spettatore, gentilmente, per andare con lui, altrove.
Togo del mare fa pretesti per le sua ricerca di pittura che poi fuggendo dalla natura, alla natura ritorna con il carico. Il segno - ragione oltre i campi, squaderna bandiere, uomini, pesci, spiagge e noi non sappiamo per quale verso prendere il largo, forse convenientemente tutti. C’è un alito irrefrenabile di vita il Togo costruisce il racconto dove mare e fuoco si parlano e si incontrano, lo spettatore non può che entrarci dentro, navigante paziente in questo piccolo mondo che facendoci perdere sembra liberarci. Un uomo sullo scoglio davanti all’orizzonte.
La scena è comune alla vita di chi frequenta i litorali ma l’opera di Orazio Urzì sembra alludere a qualcosa di segreto, negato, come l’identità del giovane di cui vediamo solo testa. Qui forse il protagonista vero è il mare con il suo lento moto battente, o forse l’orizzonte da cui viene tutto, il punto indefinito del futuro e del passato, dove la linea della pittura spacca il quadro in cielo e mare con la sua tensione piatta eppure infinita, così insieme al giovane anche noi andiamo immobili verso l’indefinito del tempo e dell’arte.
Aurelio Valentini crea un piccolo polittico dove la terra e il mare sono collegate dalle storie di uomini e donne con approdi diversi attraverso un mare che per gli uni e per gli altri vuol dire cose estranee che sembrano non potersi incontrare. Grazie al blu e una paletta modulata di toni bruni, l’artista costruisce un tableau organico e coerente, come le scene di un film, scompartendo la superfice dell’opera in piccole scene. L’occhio dello spettatore diventa così come punto di fuga di una prospettiva multifocale, semantica e formale, dove nel suo sguardo l’artista cerca di unificare gli opposti in una riflessione critica pacata quanto lucida e sensibile.
I guerrieri di Ranieri Wanderlingh geometrizzanti e modernissimi vengono verso di noi fieri, minacciosi. L’uno dorato ha lo splendore greco del Mediterraneo solare, l’altro è pallido e lunare la sua figura è azione animata dalla linee spezzate e dinamiche, anche i suoi occhi fanno angoli acuti carichi di un sentimento marziale d’attacco. Con il suo stile grafico e pregnante, Wanderlingh crea una coppia opposta e complementare, un dittico che rielabora l’iconografia dei guerrieri della guerre sante, delle Gerusalemme dei poeti rinascimentali qui reinterpretati in due figurine fascinose come quelle eclettiche e originalissime di Leon Bakst.
Mosè Previti
Testo per la mostra "Cuore Mediterraneo"
dal 7 al 11 agosto 2018
Camera di Commercio di Messina
Una produzione Mutualpass
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