Nella mia esperienza di critico d’arte ho avuto l’occasione di incontrare numerosi artisti di ogni età. Il maggiore lascito di questi incontri riguarda gli aspetti della vita piuttosto che quelli dell’arte. D’altra parte, l’arte si interroga della vita ed è fatta della vita delle persone, anche se talvolta non sembra così. Le persone hanno un atteggiamento molto mentale di fronte all’arte. Soprattutto gli specialisti, i critici e gli accademici, guardano all’arte in relazione ad alcune griglie interpretative che con la professione intellettuale si fortificano sempre di più. I critici d’arte aumentano il loro prestigio grazie alla condivisione del loro giudizio che, quasi sempre, riguarda la costruzione di ulteriori strumenti intellettuali per godere dell’arte per via cerebrale. La gente comune e gli studenti sono le principali vittime di questo “sistema dell’arte” che ha tutto il diritto di esistere ma anche tutto il diritto di essere ignorato.
Ho avuto il grande piacere di condividere alcuni momenti della mia esistenza con artisti il cui animo scintillava di energia e immaginazione. Al principio del mio percorso, di fronte a questi artisti e al loro lavoro, la mia reazione è stata quella di perplessità e di pregiudizio. La mente dell’uomo ha necessità continua di controllare, definire e piegare la realtà. Il giudizio estetico rientra pienamente in questa “attività di governo” della nostra mente. Si tratta di un’attività che non ha niente a che fare con l’arte, piuttosto con il potere, inteso come necessità dell’uomo di “gestire” il mondo e, talvolta, anche gli altri uomini.
Viviamo su una società interamente costruita su questi meccanismi. Non saprei dire con certezza se in altre epoche l’uomo avesse un contatto più intimo con la sua parte animica, con la sua anima. Alcuni sostengono che è stata la fine del matriarcato e l’imporsi di una società patriarcale, profondamente segregante e discriminatoria, a cambiare le carte in tavola. È una spiegazione plausibile ma qui il fulcro è questo ancestrale e ormai perduto rapporto cosciente con l’anima, l’anima nostra e di tutto il mondo che ci circonda. Anima, inconscio, istinto, le definizioni sono tante, tuttavia credo che il lettore capirà di cosa sto parlando.
L’acqua è il simbolo delle emozioni, l’incessante movimento della vita. La psicologia interpreta i sogni in cui è presente una grande massa d’acqua, come rappresentazioni del nostro approccio alla vita. Sognare di tuffarsi in acqua o di nuotare rappresenta il contatto con le emozioni profonde, con la nostra parte più vitale. Sognare di farsi la doccia o di essere inondati da un getto d’acqua, rappresenta uno stato di ricostituzione e purificazione degli elementi che formano il nostro inconscio. Tuttavia, l’acqua può rappresentare anche il pericolo, qualcosa che può travolgerci. Anche nella vita reale, guardare la profondità del mare può risultare un’esperienza non perfettamente gradevole. Perché? Cosa ci spaventa dell’Abisso? Cosa c’è dentro l’acqua di così spaventoso?
In lingua berbera “Aman Iman”, l’acqua è vita, ed è chiaro che le due parole hanno un suono quasi identico. Nel deserto si costruiscono pozzi profondissimi per riuscire a giungere all’acqua. Quando pensiamo a un pozzo, la nostra immagine vede un cilindro fatto di mattoni con una carrucola per immergere il secchio. Pochi sanno che quel cilindro di mattoni, quell’anello che noi chiamiamo pozzo, in realtà si chiama vera, la vera del pozzo. Il pozzo è un archetipo legato alla profondità ma anche alla pericolosità di qualcosa che risale dall’ignoto. Perché? Forse perché dalla vera è possibile giungere alla veritas, alla verità? Forse perché nel pozzo c’è qualcosa che ha a che fare con ciò che non conosciamo ma che ci riguarda da vicino, qualcosa che parla di noi?
“Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”. Così scrive Friedrich Nietzsche in Al di là del Bene e del male (1886). A cosa si riferisce? La vita del filosofo tedesco sembra concludersi nell’abisso per eccellenza, quello della follia. Le sue parole sembrano un’autoprofezia. Friedrich Nietzsche combatteva i mostri della sua mente, la sua insuperabile necessità di essere riconosciuto come il genio che era. I mostri non era nell’abisso dell’inconscio, ma nella sua devastante necessità di essere gratificato, di essere amato e riconosciuto. I suoi mostri abissali erano nella mente e nel suo infaticabile e inutile lavoro di dominio sul mondo.
Nel libro cinese degli oracoli I Ching, l’Abissale è rappresentato dall’esagramma 29, Kan. “Abisso (su abisso, invero il pericolo è raddoppiato. L’acqua scorre senza mai accumularsi in alcun luogo: agire è pericoloso, ma non si deve perdere la propria integrità). Impara ad affrontare ripetutamente l’abisso, abbi fede, tieni saldo il cuore e riuscirai). Agisci e avrai ricompense (invero andando avanti avrai buoni risultati). Il cielo è pericoloso: invero non è possibile scalarlo. La terra è pericolosa: invero per i monti, i fiumi, i colli e le alture. Re e duchi utilizzano in modo strutturato il pericolo per difendere il proprio paese. Gli effetti del tempo del pericolo possono essere realmente grandi e vantaggiosi”. Nella sentenza, ritorna l’idea che l’Abisso sia un luogo pericoloso, un mostro da affrontare. Tuttavia, sembra che chi interroghi l’oracolo debba porsi nella condizione di superare e vincere le sfide dell’Abisso.
“Abyssus abyssum invocat, in voce cataractarum tuarum; omnia excelsa tua, et fluctus tui super me transierunt”. Ovvero: “Un abisso chiama l'abisso al fragore delle tue cascate; tutti i tuoi flutti e le tue onde sopra di me sono passati”. Il salmo 42 viene interpretato come un’immagine del vizio: l’abisso che chiama altro abisso, peccato su peccato. Tuttavia, la seconda parte della composizione dice altro: tutti i tuoi flutti e le tue onde sopra di me sono passati. Qui non c’è vizio, qui non si parla di peccato, qui si parla della profondità della vita e del suo inesorabile scorrere nonostante tutti gli impedimenti che la nostra mente organizza per bloccare questo flusso.
“Non devi pensare”. “Lasciati andare. Quando creo non penso a niente”. RE mi ha parlato più volte in questi termini. All’inizio, francamente, non ci capivo niente. Mi sembrava una predisposizione personale all’attività artistica, un suo modo di lavorare. Non si tratta di questo. E non è casuale che sia un’artista donna, così giovane, ad affrontare il suo lavoro con l’apertura che tanti maestri inseguono per tutta una vita. Questa apertura, questo abbandono all’Abisso è il segreto, il più profondo e anche il più inspiegabile dei tesori che mi sono stati lasciati in eredità dagli artisti che ho incontrato. RE lo interpreta e lo agisce con una spontaneità che è innata alla sua natura e che credo lei abbia avuto da sempre, come un dono. In questi Abissi RE non ha mostri da combattere, non ci sono creature definitive. È lo spettatore che deve andare oltre la vera del pozzo, chi incontra l’opera deve trovare la chiave, il fondo del proprio abisso. E questo non ha nulla a che vedere con l’estetica, con il “mi piace” o “non mi piace”, è un rapporto personale che può anche scontrarsi con un abisso che inquieta, un ignoto che non riusciamo sostenere. Questo mare spumoso e increspato come la pelle di un antico mostro può ricordare la felicità bambina delle nostre estati ma anche il terribile momento in cui abbiamo capito che noi esistiamo, che siamo diversi dagli altri, che siamo stati vittime dei nostri genitori, il momento in cui abbiamo capito che siamo schiacciati dal giudizio del mondo e che siamo soli, interamente, sempre e soprattutto fino all’ultimo, soli di fronte alla tragica bellezza dell’Abisso e al suo infinito e imprevedibile movimento.
Mosè Previti
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