Momò Calascibetta, palermitano, classe 1949, il 4 agosto del 2021, ha inaugurato al Museo Riso, la mostra “Il Giardino delle Delizie”. L’esposizione raccoglie oltre cinquanta opere, tra dipinti, disegni, sculture e istallazioni, dagli esordi all’ultimo imponente lavoro: Il Giardino delle delizie, appunto. Allestita nelle tre sale al primo piano del Palazzo Belmonte Riso, la rassegna restituisce quarant’anni di attività di un artista dalla personalità nettissima, riconosciuta, fin dagli esordi, dai maggiori intellettuali italiani sia in Sicilia (Sciascia) sia più tardi a Milano (De Micheli), città quest’ultima che lo vedrà affermarsi artisticamente e professionalmente fino dal 1982, anno del suo trasferimento. La mostra di Palermo è quindi un “ritorno”, attentamente preparato, nel luogo da cui ha preso l’avvio il suo percorso.
Nella prima sala dell’esposizione è presente un nucleo di opere appartenenti al periodo 1975-81. Questa prima fase della sua carriera vede Calascibetta come artista già ben definitivo dal punto di vista tecnico e poetico. Fin dal principio, Momò è un artista satirico. La satira, in quanto processo di esaltazione e deformazione del reale, necessita di ben consolidati mezzi tecnici e Calascibetta è un formidabile disegnatore. Tale eccezionale talento è subito percepibile, ad esempio, in Processioni e Processi (1975) e Magistrato con Signora (1979), qui la linea di contorno cala dai corpi cicciuti e ondulati fino alle profondità delle rughe più minute, costituendo profili mobili, come scossi dalle ombre dal continuo bruciare di una lanterna (al gas esilarante). In questo periodo la sua paletta cromatica si muove intorno a variazioni di blu, verde, rosso, su cui indugia una descrizione precisa degli abiti, degli accessori, delle espressioni.
Negli anni ’70 l’artista, che allora firmava le mostre ancora con il nome anagrafico di Antonio, è già il Calascibetta di oggi, soprattutto per la sua poetica: sulfurea, mordace, satirica, attaccante, provocatoria. È difficile per chi guarda queste opere oggi riuscire a decodificare, se vi sono stati, i modelli che hanno ispirato, ad esempio, la serie di oratori, tra cui il sulfureo Oratore in rosso (1981). Guardando queste immagini si ha la netta impressione che esse siano chirurgiche e devastanti metafore dei protagonisti reali della società del tempo. Dietro l’oratore, ad esempio, vi sono le vertiginose tribune di un anfiteatro aperto al pubblico per uno spettacolo o, magari, per un sontuoso congresso della Democrazia Cristiana. Notabili, giudici, ricchi, nobili: il catalogo dei potenti bersagliati da Calascibetta è già ricchissimo in questi primi anni di attività in cui la temperatura del dibattito politico e culturale italiano era altissima, infernale quasi, per profondità e violenza. Già da questa prima sequenza il visitatore ha la netta consapevolezza della posizione dell’artista: contrasto, attacco, derisione, personale divertimento. La vena creativa di Calascibetta si amplifica ulteriormente nel decennio seguente. Nella sala centrale sono raccolti alcuni lavori di grandi dimensioni: Comiso Park (1984) e Giochi e spassi degli eroi di Comiso Park (1984), opere di cui sono presenti pure alcuni bozzetti. Il grande acrilico (200 x 300 cm) di Comiso Park presenta già quell’idea iconografica della giostra, che nel bel catalogo di Aura Phoenix Edizioni, l’artista fa risalire alla sua adolescenza al Foro italico di Palermo e che nella sua opera, invece, torna, come descritto da Guastella, quale evocazione di un disastro.
Negli anni ’80 Comiso fu al centro di accese manifestazioni pacifiste contro l’installazione delle testate nucleari americane. Le lotte furono al centro delle irriverenti pagine del giornale “I Siciliani” di Giuseppe Fava, pubblicazione caratterizzata dai toni espliciti apertamente denigratori nei confronti della mafia e del sistema politico clientelare siciliano. Gli attacchi provocatori e dirompenti del giornale, la cui pubblicazione costò la vita a Fava, sembrano ritornare nell’opera manifesto Giochi e spassi degli eroi di Comiso Park dove compare uno scimmione ricciuto, forse metafora dell’impero americano, cui viene reso omaggio da un paludato personaggio.
L’idea della giostra, torna anche in Piazza della vergogna (1987), la celebre piazza degli “ignudi” della fontana pretoria, monumento palermitano ripreso con la consueta, altissima precisione, da Calascibetta che la rappresenta letteralmente invasa da personaggi:
“Gli attori di questo dissennato carnevale sono politici e criminali, dame dell’alta società, nobili decaduti e prelati, intellettuali e artisti che tessono rapporti inconsistenti dentro una babilonia disperata che si agita tra i vortici dei giochi dell’acqua; un’umanità vacua e disfatta, verminosa e potente, un carnevale di annoiati, vitelloni e nobili a noleggio. Menti infide e incartapecorite che mal sopportano frammenti di virtù civili nel salotto cafone e putrido della piazza siciliana” (Daverio, 1989).
La terza, grande sala, accoglie le opere dagli anni ’90 fino al Giardino delle Delizie (2020-21). Per quanto riguarda l’ultima decade del Novecento bisogna citare Labirinto verticale (1993), l’opera protagonista di un ciclo a tema mitologico. La precisione della linea, insieme alla sontuosa stesura cromatica, consentono all’artista di creare un’immagine fantasmagorica, allucinata, potente come un sogno o una festa psicotropa per il compleanno di Otto Dix sotto la cupola correggesca dell’Assunta. In quest’ultimo scorcio di secolo Calascibetta raggiunge un optimum pittorico espressivo dal respiro monumentale che avrà modo di concentrarsi, più tardi, in alcuni opere dall’impianto più sintetico, come la straordinaria Cui prodest (2004) opera che può collocarsi al principio di quel filone di attacco al sistema dell’arte contemporanea che costituisce uno dei temi maggiormente battuti da Calascibetta negli anni recenti. Per gli anni 2000, oltre al ciclo sui musicisti di strada, tra cui troneggia il sassofonista irlandese a cavallo di MoMozart mon amour (2006), bisogna segnalare anche il virtuosistico disegno di Haremomò n°1 (2004), opera di deliziosa e soave maestria tecnica. Sono gli anni in cui l’artista rappresenta il mondo degli ultimi, andando a caccia di quei stridenti contrasti che sono il fulcro della sua poetica.
La pittura dell’artista sembra svilupparsi su versanti dall’iconografia cinematografica (Shampoo, 2006), salvo poi tornare ancora più robustamente all’effervescente esuberanza degli ultimi anni segnati dal suo peculiare pop barocco, glamour e insieme profondamente decadente. La decadenza dell’opera di Momò è però soltanto sottesa, imbellettata. L’artista non è mai drammatico e non c’è patetismo, non c’è rancore, anzi spesso lo sberleffo copre una pietas capace di contenere e raccontare la complessità del mondo. Tuttavia, l’empatia non vieta all’artista di organizzare un attacco totale ai protagonisti del sistema dell’arte siciliano, che dal 2017 in poi diventano il fulcro di alcuni progetti, quali Cenere (a cura di Andrea Guastella, 2018).
Nella mostra sono presenti anche alcuni lavori che hanno come protagonisti celebri artisti e critici italiani, sagacemente sottoposti a una pungente legge del contrappasso. Siamo, come detto, nel momento di rottura dell’artista nei confronti del sistema dell’arte. Tale rottura è ideale e pratica. La dimostrazione è data propria dall’opera che titola la mostra e che rappresenta anche la grande vitalità di questo artista. Il Giardino delle delizie è un’opera pittorica che non ha molti paragoni all’interno del panorama nazionale odierno. Anche rispetto al percorso di Calascibetta, quest’opera rappresenta uno slancio in avanti di straordinaria qualità e spessore artistico. L’enfasi è giustificata, innanzitutto, dalla goduriosa, il termine è qui sensualmente e gastronomicamente inteso, materia pittorica. La straordinaria plasticità del disegno e le terse superfici cromatiche dell’opera stregano lo spettatore fin dall’ingresso nella sala. Giustamente, artista e curatore hanno deciso di organizzare la mostra come un percorso culminante in questo trittico, selezionando un numero ristretto di opere in grado di raccontare i passi che hanno condotto Calascibetta a questo capolavoro.
“Vi sono opere d’arte”, scrive Guastella, “che per il loro messaggio, i sensi riposti, le suggestioni evocate assumono valenza universale. Il Giardino delle delizie di Momò Calascibetta è una di queste. Da tempo non si incontrava un dipinto di tali ambizioni”.
Ambizioni che ritengo giustificate perché al primo sguardo, e in contrasto con la fragorosa esuberanza di questo lavoro, lo “spettatore qualificato” ha un sussulto di antica compostezza, una bacchettata che lo riporta nell’atteggiamento attento, meditativo, profondo che si usa di fronte all’arte dei maestri e che, invece, è spesso inutile di fronte alle noiose trovate di certe mostre d’arte contemporanea. Certamente Bosch per temperatura e per qualità analitica del designo può essere considerato, insieme a Bruno Caruso e pochi altri, uno dei maggiori affluenti della personalità di Calascibetta. In più, il suo “Giardino” cita oltre che il titolo, anche le misure del capolavoro custodito al Prado, e sembra quasi che in queste misure monumentali l’arte di Calascibetta trovi lo spazio per allargarsi e fortificarsi ulteriormente. Il trittico è una rappresentazione insieme metaforica e autobiografica di quel “Giardino delle delizie” che è Palermo, e con essa la Sicilia tutta, e che l’artista, sciascianamente, pone ad allegoria del mondo. Il pannello di sinistra, rappresenta i progenitori (un uomo africano, una donna mediorientale e una bambina bionda) immersi in un eden panormita (siamo sotto le volte della Gallerie delle Vittorie) dove un arcigno Dio contempla con disapprovazione la beatitudine di Adamo ed Eva fuggiti dal suo regno tombale. Le tre figure umane potrebbero anche rappresentare le stirpi dei tre continenti che in Sicilia hanno trovato la culla per allignare e confondersi: Africa, Asia ed Europa.
Ma la ridda di personaggi, tutti rappresentati sull’onda di una fantasia iconografica capace di spaziare in un repertorio vastissimo di citazioni, costringe lo spettatore a una felice opera di esegesi e di dialogo con l’immagine. Se pur chiaro, il tema si apre a un’infinità di interpretazioni, giocando con quella semiologica apertura dell’opera d’arte che si adatta alla precisa potenza di questa figurazione molto più che agli spruzzi pittorici di certa arte postbellica. Il pannello centrale vede Santa Rosalia, protettrice della città, svetta su una vorticosa giostra, al centro dei Quattro Canti, fulcro della rutilante movida turistica della Palermo del XXI secolo: spettacoloso paese dei balocchi e della ghiottoneria di strada. Due cuochi, nella parte inferiore del dipinto, stanno preparando le loro pietanze succulente, tra topi e cornacchie. Queste figure rappresentano l’adulterazione della creazione artistica nel mondo presente, tempo in cui va declinata tutta l’immagine scorciata, con una calibrata distorsione ottica, intorno alla giostra. La consueta galleria di dame e gran signori intenti a divorare cannoli e cassate, accompagna questa danse macabre vestita di festa e di diabete.
La conferma dell’ineffabile disastro arriva nel terzo pannello, quello di destra, dove compare anche il cavaliere del Trionfo della Morte di Palazzo Sclafani, icona terribile della peste e di Palermo che qui ritorna, al margine di questa fons vitae al curaro, per segnalare l’incombere di apocalittici cavalieri hollywoodiani, di spitfires (già presenti nei cicli degli anni 80) e paesaggi urbani americani devastati. Resiste al futuro infernale l’iconica “Ape” (“lapa” in siciliano) barocca e antonellesca, metafora della Sicilia turistica, festosa e miserrima, sotto di cui capitola la testa (portentosa natura morta) di un bue vucciriesco squartato dall’unico vero ritratto dell’opera: un matto di Palermo fotografato dall’artista. Questa sintetica descrizione non può tenere il paragone con le possibilità interpretative di questo testo pittorico che si connette, con divertita e astuta abilità, ad almeno tre grandi temi: l’arte e la sua crisi, Palermo e la sua società, la cultura e il suo ruolo oggi. Temi su cui s’innerva la posizione biografia ed esistenziale di Calascibetta che con quest’opera ci invita nel suo Giardino delle Delizie, dove il godimento ipertrofico nasconde un severo richiamo all’ordine. L’artista si può permettere di non esplicitarlo con toni bacchettoni esasperati e drammatici. La serietà e l’impegno di questo capolavoro pittorico sono un chiaro, definitivo, monito a quella giostra dell’arte, e del mondo tutto, perduto nelle delizie di questo tempo edonista e vuoto dove il presente è una farsa e il futuro un disastro. Se non per il mondo, almeno per l’arte conviene prenderne nota.
Mosè Previti
Riproduzione Riservata
Foto courtesy: Momò Calscibetta
Museo Regionale d'Arte Moderna e Contemporanea di Palermo
Palazzo Belmonte Riso
Via Vittorio Emanuele, 365 – Palermo
Mostra : Il giardino delle delizie
Autore : Momò Calascibetta
Curatore : Andrea Guastella
Organizzazione : Museo Riso
Catalogo : Aurea Phoenix Edizioni
Durata: 4 agosto – 25 settembre 2021
INFORMAZIONI:
Via Vittorio Emanuele, 365 - Palermo
+ 39 091587717
www.museoartecontemporanea.it
Orari : da martedì a sabato 9.00 – 18.30
domenica 9.00 – 13.00
lunedì chiuso, eccetto i festivi
la biglietteria chiude trenta minuti prima
Ingresso e biglietteria Coopculture
Riso - Museo d'arte contemporanea della Sicilia - Palermo - Musei
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