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Immagine del redattoreMosè Previti

Valentina Murabito


Tutto è santo, 2016.

Valentina Murabito è nata a Giarre (Ct), in Sicilia. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Catania e all’Accademia Moholy-Nagy di Budapest, dal 2009 vive e lavora a Berlino. Il suo lavoro si basa principalmente sul mezzo fotografico analogico, che è lo strumento di un’articolata ricerca, ma non mancano le incursioni nel campo della performance, del video e dell’istallazione. Questa intervista condensa i tanti temi di una lunga chiacchierata via skype tenutasi qualche tempo fa.

Ho notato un certo principio iconoclasta, una costante messa in discussione dell’immagine nella tua arte. In occasione della mostra berlinese In Mir (2011), ho notato che davanti alle tue fotografie hai messo dei veli, delle cortine in grado di celare le fotografie. Cosa mi dici rispetto a questo?

Anche in questo caso, come sempre nei mei lavori, c’è il tentativo di impedire una precisa identificazione sia del soggetto sia del luogo, impedire anche una collocazione storica, affinché ci sia la possibilità di trovare nell’immagine dei principi universali e condivisibili.

Nelle tue foto ti servi anche di icone dell’immaginario, del mito, sui cui lavori fratturando, mettendo in discussione, con una definizione sempre incerta, ciò che l’occhio dello spettatore osserva. È il caso di Tutto è santo (2016), che richiama la figura del centauro.

Si tratta di un’opera per me molto significativa, la considero il frutto dei miei ultimi quindici anni di lavoro e anche un punto di svolta. Ci sono diversi riferimenti iconografici e intermediali, in particolare il titolo fa riferimento al monologo del centauro del film Medea (1969) di Pasolini, che contiene una delle dichiarazioni più importanti della poetica del regista emiliano: “Tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo”, come se ci fosse quasi un dio nascosto in ogni essenza, in ogni cosa. A parlare è il centauro Chirone, il più saggio di queste creature ibride, metà uomini metà bestie, che non rappresentano soltanto le passioni più viscerali, istintive. La sapienza del centauro Chirone non è il risultato del “giusto mezzo” di Orazio, ma la sintesi dei poli estremi della natura umana: così come l’estrema violenza anche l’estrema saggezza.

Ho letto che in alcune interviste hai precisato che il tuo non è un lavoro concettuale ma è un lavoro sull’immagine, anche se da quello che mi dici percepisco una profonda e rigorosa consapevolezza della tua arte.

Tutto il mio lavoro è un discorso sulla fotografia. Non solo sulla sua storia e le sue tecniche ma anche sul ruolo che la fotografia ha oggi nel campo dei social network quale strumento di presentazione e rappresentazione della nostra identità. La mia ricerca è principalmente un lavoro sul mezzo fotografico, i contenuti seguono questa sperimentazione ma solo in un secondo momento. Metto in discussione la fotografia così come la pensiamo oggi, cioè come uno strumento per rappresentare la realtà in un modo oggettivo. Penso, per esempio, al reportage di guerra che documentano dei fatti. Però quanto questi fatti sono viziati, influenzati dal nostro passato, dalle nostre visioni, dalle nostre aspettative, da come noi vogliamo farci vedere dagl’altri?

La tua non è certamente una fotografia documentaria, ma direi si tratta di una fotografia sperimentale, artistica tout court.

Di fatto, il pubblico delle mie mostre spesso è frastornato e confuso, non riesce a comprendere la natura di queste fotografie. Dalla seconda metà dell’Ottocento i fotografi si sono divertiti con le sperimentazioni più disparate: dal foro stenopeico agli interventi chimici assortiti. Ma quelle fotografie hanno nella maggior parte dei casi l’estetica dell’esperimento ed io volevo superare questa estetica. Il mio obiettivo è quello di contaminare diverse forme espressive allo scopo di confondere lo spettatore, produrre un’estetica ibrida, sopra i generi. Alla radice del mio lavoro c’è proprio questa istanza di negazione della classificazione, negazione della categorizzazione sia per le tecniche di produzione dell’immagine sia a livello sociale. Nel mio lavoro c’è il tentativo di annullare le differenze di genere tra maschile e femminile, tra uomo e animale, ma anche differenze di tipo religioso. Come sappiamo oggi molti conflitti sono causati proprio all’acuirsi delle istanze dell’identità religiosa, etnica o politica. È chiaro che l’identità è una definizione, l’identità si definisce proprio attraverso il rapporto con l’altro. L’identità è inoltre profondamente legata al passato, alla nostra storia, al nostro territorio, per sua natura propensa all’auto-delimitazione e all’autoconservazione piuttosto che al cambiamento e al dialogo con l’altro. Il mio è quindi un attacco, al di là della fotografia e di ogni singolo tema, al concetto più ampio dell’identità, un tema che oggi è molto presente nel dibattito pubblico. La mia ultima mostra personale a Monaco di Baviera[1] è dedicata a Francesco Remotti che proprio al tema dell’identità ha dedicato molti dei suoi studi.


I siciliani portano con sé questo peso dell’identità, un’identità geografica e culturale, forse anche uno stereotipo che li ossessiona. Tu vivi a Berlino che è una città estremamente fluida dal punto di vista culturale, un crocevia di nazionalità disparate.

Berlino è una città in cerca di una sua identità collettiva e in passato ha subito proprio la forza, la violenza dell’ideologia nazionalista che si è servita della leva identitaria, ha strumentalizzato l’identità per produrre morte, distruzione. Il mio lavoro, nonostante la specificità artistica, si nutre profondamente dell’elaborazione della filosofia e della sociologia. Credo fermamente che l’identità sia un concetto molto pericoloso. Nonostante sia un concetto immaginario, ovvero frutto di un autoconvincimento forzato, e qui mi rifaccio alle teorie di Anderson e al suo libro sulle comunità immaginarie[2], ha degli effetti molto concreti e reali. Noi immaginiamo l’identità, cerchiamo di preservarla, ce ne serviamo come strumento di autorappresentazione, e penso al mondo dei social network, ma la definizione, la chiusura in questo nucleo statico non ci permette di cambiare, di ricostruirci ogni giorno, di tirare fuori degli aspetti della nostra personalità che possono stupire perfino noi stessi. L’identità trasforma la relazione con l’altro e ci preclude la possibilità di considerarlo come parte dell’eterno divenire che attraversa le cose e non le rende statiche né definibili, e che, secondo Hegel, non esiste in natura. Perché, di fatto, in natura non esiste il principio in identità, non esiste qualcosa che rimanga invariato durante il tempo e nonostante il tempo.


Decomposizione del Padre, 2016.

Tuttavia, esiste un centro d’identità biologico che è il corpo. Nelle tue performance il tema del corpo è molto presente. D’altra parte, fin dalla seconda metà del Novecento, il corpo è entrato in maniera dirompente nell’arte contemporanea e, ancora oggi, è una delle frontiere di indagine più battute dagli artisti.

Il corpo è protagonista delle mie opere ma anche del nostro tempo. Certamente parte tutto da lì: se sono un uomo alto due metri e dal corpo possente ho una prospettiva e una visione completamente diversa, anche perché vengo percepito e socializzato diversamente. Tuttavia, anche in questo caso nelle mie opere fotografiche cerco di eliminare una definizione netta, cerco di rendere irriconoscibile il corpo nella sua specificità. Non ci riesco sempre, e non è l’obiettivo di ogni opera, anche perché non credo nella poetica unica dell’artista. Però è chiaro che nel mio lavoro cerco di trasfigurare il corpo, di trascenderlo, di superare la prima percezione. Per esempio, e questo mi ha molto stupita perché non era nelle mie intensioni, ho notato che il pubblico ha fatto fatica a identificare il personaggio di Tutto è Santo, non riuscendo a capire se si trattasse di un uomo o di una donna. Si, si vede un giovane, di quale età, di quale periodo, di quale tempo? Una volta qualcuno mi ha anche detto che provava una certa fatica, doveva compiere uno sforzo per identificare i miei soggetti. Questo mi ha molto colpito e mi ha fatto riflettere.


Certamente il tuo approccio è in controtendenza con il linguaggio delle immagini tuttora vigente che è subito chiaro, subito incasellabile, subito presente e definibile. In questo senso il tuo lavoro è molto stimolante, la loro forza, per certi versi anche la loro prepotenza, mi sembra un dato estremamente positivo che da alla tua arte carattere specifico di particolare spessore. Pantomime (2015) è un titolo che incuriosisce, potresti parlarmi di queste foto?

Pantomime è un lavoro singolare che ho iniziato in modo e finito in un altro. Non faccio mai serie fotografiche, non mi interessano. Il discorso del racconto, didascalico, un po’ come la pittura del medioevo che puntava a istruire un pubblico per lo più analfabeta, non m’interessa e non lo ritengo necessario oggi. Pantomime nasce a seguito della mia immersione quasi asfissiante ai vernissage, credo che entrambi abbiamo assiduamente frequentato i vernissage.


Certamente, sono dei momenti di splendida socialità, in qualche caso anche molto divertente, ma inevitabilmente, l’oggetto principale dell’evento, cioè l’arte, finisce in secondo piano.

Esattamente. Proprio per questo motivo il titolo di queste opere è Pantomime. Nell’antichità le pantomime erano delle rappresentazioni teatrali mute in cui l’unica protagonista diventa l’espressione, spesso esagerata e caricaturale, e il gesto. Le mie Pantomime sono proprio degli studi, degli appunti visivi che vengono dalle pose dei protagonisti di queste mostre. Le ultime opere di questa serie prendono tuttavia una strada inaspettata e finiscono col diventare delle riflessioni sui sistemi totalitari influenzate dalle teorie di pensatori come Hannah Arendt. Questa serie fotografica diventa infatti alla fine piuttosto cupa.


Pantomime, 2015.

Qual è la relazione tra il mondo fuori e la dimensione privata, esoterica della tua camera oscura? Perché noto che nonostante il tuo grande lavoro, di cui si percepisce chiaramente l’estrema cura preparatoria, non si tratta di una produzione che rimane chiusa, assediata dalla dimensione personale, ma la vedo in connessione con il mondo.

La camera oscura è il momento decisivo del mio lavoro artistico, perché lì è il momento in cui cambio idea rispetto allo scatto iniziale, cambio la “realtà” fotografica. Naturalmente lo scatto contiene l’idea e presuppone una progettualità, però il fulcro del mio lavoro sta proprio nella manipolazione a posteriori dell’immagine, questo mi consente di cambiare questa realtà presunta della fotografia. La fotografia stessa è nata per un bisogno di realtà, dentro un processo economico e sociale, quello della rivoluzione industriale, che aveva un preciso atteggiamento nei confronti di una presa di coscienza oggettiva della realtà. La domanda che io pongo con la manipolazione in laboratorio è proprio intorno alla realtà della fotografia che viene presentata come oggettiva, ma che io intendo più come una rappresentazione, nel senso teatrale del termine, della realtà. Noi oggi utilizziamo la fotografia continuamente, grazie agli smartphone facciamo almeno una fotografia al giorno. Quindi la fotografia è il mezzo di massa per eccellenza, viene usata con la pretesa di riprodurre la realtà, di aiutare il ricordo. Questa realtà che pensiamo di aver cristallizzato nello scatto è una menzogna, perché la fotografia stessa è una menzogna, una rappresentazione della realtà distorta dalla nostra visione. Quindi manipolando qualcosa di già manipolato è come se ne smascherassi il meccanismo, se cercassi di togliere questo velo, di sottolineare questa contraddizione.


Questa riflessione ha anche dei caratteri personali, biografici? Quando hai detto che cambi idea, cambi idea anche sulle cose che vedi, sulle persone e le situazioni che incontri.

L’arte ha sempre un carattere personale, ma forse oggi è diventato troppo personale. Questa personalizzazione, questo eccesso d’identità fa si che si perda anche un contenuto condiviso, un contenuto universale, che parte da una dimensione personale ma che sia condivisibile in quanto bisogno proprio della società in quel momento. L’identità è il valore più condiviso dei giorni nostri, scoprire chi siamo e definirci rispetto agli altri ci preoccupa molto di più di un dio che realmente non abbiamo mai incontrato. Il medioevo era l’epoca della religione, l’Ottocento e il Novecento quello della nazione, adesso siamo nell’epoca dell’identità: parlare dell’identità, a favore o contro, è uno dei pochi contenuti condivisibili al giorno d’oggi, ammesso che ne siano rimasti. Il mio intento non è un’arte personale, legata alla mia vita. Il mio dovere, in quanto artista, è quello di cercare un contenuto che possa essere importante per tutti.


Come è nata la tua sperimentazione con il mezzo fotografico?

Durante i primi anni di Accademia ho studiato a fondo la natura e le origini di questo mezzo. Sono partita dal digitale per tornare all’analogico. Il 2008 e il 2009 sono stati decisivi per me perché in quel biennio ho vinto due borse di studio che mi hanno permesso di studiare presso la rinomata Accademia di Arte e Design Moholy Nagy di Budapest. Mi sono presa molto tempo per studiare e sperimentare. La sperimentazione è la via più lunga per un artista, perché comporta l’errore, non ama la ripetizione ed ha l’inevitabile conseguenza di una produzione limitata, ma unica e irripetibile come l’errore. Durante questi anni mi sono anche chiesta il perché di questo lavoro sul negativo, sulla mutazione del contenuto dell’immagine. In realtà, la fotografia così com’è non mi soddisfaceva quindi ho cominciato a sviluppare delle tecniche per manomettere l’immagine: i primi anni mi sono impegnata nella manipolazione della carta baritata, alterando le proporzioni dei reagenti chimici, sviluppando con le mani o con i pennelli, falsificando ogni genere di processo che mi ha condotto ad una ricerca sull’estetica dell’errore. Successivamente sono passata a tecniche ancora più antiche, ancora più arcane, come quella della fotoemulsione, con la quale sono realizzate tutte le foto dal 2016, nelle quali lavoro direttamente con la gelatina fotosensibile: il nitrato d’argento. Si tratta di un campo di sperimentazione completamente nuovo, in cui mi è possibile sviluppare e manipolare fotografie su supporti diversi dalla carta baritata, per esempio su legno o sull’intonaco di un muro.


A proposito di sperimentazione, potresti parlarmi della tecnica dell’affresco fotografico?

In realtà parlare di “affresco” non è corretto, tuttavia mi piaceva l’idea di mettere in dialogo la fotografia con la pittura. L’affresco fotografico è una tecnica molto rara. Non esiste una bibliografia su questo argomento, la tecnica non è insegnata in nessuna università, e solo due o tre artisti si sono cimentati nella produzione di affreschi fotografici ma per via dei costi e del tempo richiesto dall’esecuzione non hanno dato seguito alla sperimentazione. Per realizzarlo è necessario rendere il muro sensibile alla luce, ovvero in grado di catturare la luce, per poi sviluppare l’immagine spruzzando decine di litri di chimici tra acqua e solventi chimici, e vi sono tutta una serie di laboriosi accorgimenti che richiedono diverse settimane di preparazione. Non è un’opera trasportabile, richiede tempo e risorse per essere realizzata, questo pone l’affresco fotografico in totale controtendenza rispetto all’arte come prodotto, sempre fruibile, istantaneo e mobilissimo, come oggi viene comunemente intesa. Per questo l’affresco fotografico, esigendo la presenza del fruitore nel luogo in cui si trova l’opera, è in totale controtendenza con la logica capitalistica della mobilità di merci e persone. Si tratta di un ritorno all’aura della fotografia analogica, un ritorno all’opera quasi come luogo di culto e pellegrinaggio, come la Mecca.


Credo che le tue opere emanino un’aura palpabile, qualcosa di misterioso e sacro. E la sacralità è proprio l’opposto della fruibilità. È sacro ciò che è oggetto d’interdizione, ciò che non può essere toccato, ciò che non può essere sempre visto. Il sacro pone “in difesa” lo spettatore, che è sottomesso dall’immagine, non può dominarla. E in questo senso anche le tue parole mi sembrano coerentemente militanti, “marzialmente“ coinvolte nella tua arte.

Si, è vero. Questo dipende soprattutto dalla natura del mio lavoro che deve essere per forza di cose assolutamente preciso, non mi concede alcun tipo di distrazione o di errore. Perché un piccolissimo errore causerebbe la perdita totale dell’affresco e quindi d’ingenti risorse e di lavoro. Tutto questo fa si che si crei una barriera, una distanza fra l’opera e lo spettatore, una distanza che io stessa accentuo con cornici, schermi e vetri proprio per sottolinearne il carattere metafisico. Queste opere ormai non mi appartengono, si sono scisse da me, la loro aura sacra, come dici tu, viene emanata da loro stesse. Il mio lavoro, per quanto innovativo, non è un lavoro profetico. Sono molto lontana dalla visione romantica e decadente dell’artista veggente, come individuo speciale. Preferisco un artista dentro la società, con un suo ruolo, con un suo statuto, una sua posizione, invece che un “uomo senza contenuto”, per dirla come Agamben. L’artista oggi è in una posizione veramente screditata, come mai prima nella storia. Vive una completa caduta che non è imputabile a lui, ma alla scomparsa di valori che toccano tutti. In passato quando guardavamo la Madonna di Giotto non stavamo guardando l’opera di Giotto ma la Madonna come entità e guida spirituale. Quando entravamo in una chiesa e ci accoglieva un canto gregoriano non si trattava di un piacere estetico ma di un’estasi spirituale. L’arte insomma non era solo oggetto del nostro giudizio estetico, bensì svelava visioni metafisiche, mondi solitamente inaccessibili. Le mie opere cercano di recuperare questa sacralità, vorrebbero essere uno svelamento del divino, non in quanto profezia religiosa, ma in quanto momento di conoscenza e ricerca della verità.


E allora qual è il ruolo dell’ artista nella società contemporanea?

L’artista oggi non ha alcun ruolo. Vive in un limbo, in una completa indefinitezza, analogamente a quanto si vede nelle mie opere. C’è confusione ormai da più di duecento anni attorno a questa professione, perché l’artista e l’arte devono trovare un nuovo statuto nella società, devono reintegrarsi con essa.


E la fotografia è stata uno dei principali esecutori della “morte sociale dell’artista”.

La fotografia è figlia della decadenza. La fotografia è totale decadenza della realtà. In quanto prodotto della tecnica, ha creato ulteriore confusione sull’agire umano. C’è stato uno scambio tra prodotto e opera d’arte, con la conseguenza che l’artista è stato privato del suo compito disvelante del divino, chiarificatore delle cose umane. Il Dadaismo e la Pop Art hanno cercato di smascherare, provocatoriamente, questa confusione tra prodotto ed opera d’arte, rendendo questi due quasi indistinguibili e facendo quindi emergere la crisi profonda in cui si trova l’arte. Nella maggior parte delle gallerie d’Europa oggi si è verificata una confusione tra opera d’arte, prodotto commerciale e oggetto di design o decorativo perché l’opera d’arte non cerca più di svelare la verità, come la direbbero i filosofi. Come dicevo, siamo in questa condizione da diverso tempo ormai. Credo che qualcosa di nuovo nascerà, noi stiamo vivendo un momento di passaggio e questo momento indefinito è il presupposto di ogni creazione.

A cura di Mosè Previti

Tutte le immagini sono courtesy Valentina Murabito

RIPRODUZIONE VIETATA

[1] Against identity, Galerie Benjamin Eck, München, Germany, 2016. [2] Benedict Anderson, Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, 1983.

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